lunedì 24 settembre 2012

Una scelta normale: essere genitori giovani in un’Italia vecchia

di Dario D'Urso


Primo episodio: una giovane coppia (29 anni entrambi) non sposata cerca una casa da acquistare a Roma. Pur conoscendo bene l’impossibilità dell’impresa, in considerazione del mercato immobiliare ‘drogato’ della Capitale, i due ci provano lo stesso, dando un’occhiata – che tracotanza! – anche ai quartieri centrali. Lei, in tutto questo, è al quinto mese di gravidanza. I nostri visitano uno di quegli appartamenti fatti apposta per una coppia di innamorati e con un prezzo da coppia di rampolli dell’alta finanza. Al momento del congedo, la sessantenne padrona di casa, guardando il pancione di lei, non riesce a trattenere un appello dal vago sapore di ammonizione verso i due (im)probabili acquirenti: ‘aspettate un bambino? Alla vostra età? Certo, ne avete di coraggio…’. I nostri due amici si guardano in faccia, un po’ increduli e un po’ infastiditi. Sono lì lì per replicare e far valere il merito di una scelta normale che, in tempi generazionalmente perversi come i nostri, sembra essere diventata un atto eroico, quasi incosciente. Poi ci ripensano, alzano le spalle, accennano un falso sorriso di cortesia alla severa detentrice dell’ordine generazionale italiano (e di un costosissimo buco monticiano) e se ne vanno.  
Secondo episodio: stessa coppia di prima, ma con il pargolo già arrivato. Lui, il neopapà, si ritrova per varie peripezie ad una cena di amici, da solo. È seduto accanto a delle ragazze che non conosce, ma che, incuriosite dalla valanga di auguri, brindisi e pacche sulle spalle che riceve, gli chiedono il perché di tutta questa celebrazione. ‘È che sono diventato padre’, risponde, un po’ timido, il nostro. ‘Ma scusa, quanti anni hai?’, fa una delle vicine di tavolo, più confusa che persuasa. Il ‘ventinove’ di risposta scatena un meravigliato, quasi urlato ‘allora sei un ragazzo padre!’. A quel punto, il nostro giovane genitore, pensando a quanto in effetti gli piacerebbe avere 6-7 anni in meno, si tuffa sul piatto di pasta che ha di fronte, non prima di aver pronunciato un ‘eh..’ pregno di significati.
Cosa ci dicono questi due episodi (realmente accaduti)? Che per due persone appartenenti a generazioni molto lontane (una sessantenne e una ventenne) l’idea che una coppia di quasi trentenni decida di mettere al mondo un figlio sia, perlomeno, curiosa. Non al passo con i tempi, forse; sicuramente temeraria. Ecco a voi l’effetto sulla mente degli italiani (di tutte le età) di vent’anni di precarietà e di totale disinteresse per le nuove generazioni. In un paese in cui le politiche di appoggio alla paternità/maternità sono pressoché inesistenti, in cui a 30 anni è più che normale saltare da un contratto all’altro e in cui a 40 si è ancora troppo giovani per occuparsi della cosa pubblica, si è consumata la deresponsabilizzazione di un’intera generazione. In questo contesto, il legittimo desiderio di molti giovani italiani di avere un figlio viene mortificato due volte: logisticamente – per la mancanza di un appoggio istituzionale – e culturalmente –  perché ormai è comunemente accettato che si diventi genitori intorno ai 40 anni.
Chi si scaglia contro questo genere di situazioni lo fa spesso da posizioni religiosamente ‘interessate’, assoggettando il tema della procreazione ad un’imprescindibile morale cattolica. Ciò svilisce il tema, che è invece di assoluta rilevanza anche per chi non è credente e – soprattutto – per chi non vede nel matrimonio una precondizione alla scelta di diventare genitore. Si tratta di una battaglia squisitamente laica, una vera e propria sfida generazionale, la cui stessa esistenza rappresenta un ulteriore segnale della senescenza della nostra classe politica – che, semplicemente, non si pone un problema non suo.
Come si può invertire la tendenza? Qualsiasi intervento pubblico a riguardo dovrebbe rispondere ad una semplice logica: semplificare la vita di coloro che, pur non godendo del tutto di una stabilità professionale,  nonché di quella rete di sicurezza spesso rappresentata dalle famiglie di origine, decidono di avere un figlio. Questo può tradursi in un appoggio finanziario per le spese che un bambino comporta (ad esempio tramite un sistema di buoni da spendere in farmacie e supermercati per l’acquisto di pannolini e latte in polvere), in un potenziamento della rete degli asili nido comunali e – soprattutto – di quelli nei posti di lavoro. Quest’ultimo punto, in particolare, rappresenterebbe un vero e proprio strumento di politica industriale, nonché un volano per l’occupazione femminile e per una reale parità tra i sessi. A ciò si potrebbe aggiungere una maggiore equiparazione tra i diritti dei padri e delle madri, specie in ambito professionale, e un migliore accesso al credito per i neogenitori.
La crisi generazionale in cui langue il nostro paese dagli anni ’90 ha inculcato nel sentire comune l’idea per cui un figlio rappresenti essenzialmente un costo insostenibile ‘con i tempi che corrono’ e uno svantaggio nell’accanita competizione per il nostro tanto desiderato posto al sole, che tarda sempre più ad arrivare. Checché ne dicano vecchie padrone di casa o ventenni all’avanguardia (presunta), un figlio è innanzitutto un’occasione per migliorarsi, come persone e come cittadini. Prima la classe politica di questo disgraziato paese lo capirà, prima potremmo ritrovare la strada della dignità, che da troppo tempo l’Italia sembra aver smarrito. 

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