Primo episodio: una giovane coppia (29 anni entrambi) non
sposata cerca una casa da acquistare a Roma. Pur conoscendo bene
l’impossibilità dell’impresa, in considerazione del mercato immobiliare
‘drogato’ della Capitale, i due ci provano lo stesso, dando un’occhiata – che
tracotanza! – anche ai quartieri centrali. Lei, in tutto questo, è al quinto
mese di gravidanza. I nostri visitano uno di quegli appartamenti fatti apposta
per una coppia di innamorati e con un prezzo da coppia di rampolli dell’alta
finanza. Al momento del congedo, la sessantenne padrona di casa, guardando il
pancione di lei, non riesce a trattenere un appello dal vago sapore di
ammonizione verso i due (im)probabili acquirenti: ‘aspettate un bambino? Alla
vostra età? Certo, ne avete di coraggio…’. I nostri due amici si guardano in
faccia, un po’ increduli e un po’ infastiditi. Sono lì lì per replicare e far
valere il merito di una scelta normale che, in tempi generazionalmente perversi
come i nostri, sembra essere diventata un atto eroico, quasi incosciente. Poi
ci ripensano, alzano le spalle, accennano un falso sorriso di cortesia alla
severa detentrice dell’ordine generazionale italiano (e di un costosissimo buco
monticiano) e se ne vanno.
Secondo episodio: stessa coppia di prima, ma con il pargolo
già arrivato. Lui, il neopapà, si ritrova per varie peripezie ad una cena di
amici, da solo. È seduto accanto a delle ragazze che non conosce, ma che,
incuriosite dalla valanga di auguri, brindisi e pacche sulle spalle che riceve,
gli chiedono il perché di tutta questa celebrazione. ‘È che sono diventato
padre’, risponde, un po’ timido, il nostro. ‘Ma scusa, quanti anni hai?’, fa
una delle vicine di tavolo, più confusa che persuasa. Il ‘ventinove’ di
risposta scatena un meravigliato, quasi urlato ‘allora sei un ragazzo padre!’. A
quel punto, il nostro giovane genitore, pensando a quanto in effetti gli
piacerebbe avere 6-7 anni in meno, si tuffa sul piatto di pasta che ha di
fronte, non prima di aver pronunciato un ‘eh..’ pregno di significati.
Cosa ci dicono questi due episodi (realmente accaduti)? Che
per due persone appartenenti a generazioni molto lontane (una sessantenne e una
ventenne) l’idea che una coppia di quasi trentenni decida di mettere al mondo
un figlio sia, perlomeno, curiosa. Non al passo con i tempi, forse; sicuramente
temeraria. Ecco a voi l’effetto sulla mente degli italiani (di tutte le età) di
vent’anni di precarietà e di totale disinteresse per le nuove generazioni. In
un paese in cui le politiche di appoggio alla paternità/maternità sono
pressoché inesistenti, in cui a 30 anni è più che normale saltare da un
contratto all’altro e in cui a 40 si è ancora troppo giovani per occuparsi
della cosa pubblica, si è consumata la deresponsabilizzazione di un’intera
generazione. In questo contesto, il legittimo desiderio di molti giovani
italiani di avere un figlio viene mortificato due volte: logisticamente – per
la mancanza di un appoggio istituzionale – e culturalmente – perché ormai è comunemente accettato che si
diventi genitori intorno ai 40 anni.
Chi si scaglia contro questo genere di situazioni lo fa
spesso da posizioni religiosamente ‘interessate’, assoggettando il tema della
procreazione ad un’imprescindibile morale cattolica. Ciò svilisce il tema, che
è invece di assoluta rilevanza anche per chi non è credente e – soprattutto – per
chi non vede nel matrimonio una precondizione alla scelta di diventare
genitore. Si tratta di una battaglia squisitamente laica, una vera e propria sfida
generazionale, la cui stessa esistenza rappresenta un ulteriore segnale della
senescenza della nostra classe politica – che, semplicemente, non si pone un
problema non suo.
Come si può invertire la tendenza? Qualsiasi intervento
pubblico a riguardo dovrebbe rispondere ad una semplice logica: semplificare la
vita di coloro che, pur non godendo del tutto di una stabilità professionale, nonché di quella rete di sicurezza spesso
rappresentata dalle famiglie di origine, decidono di avere un figlio. Questo
può tradursi in un appoggio finanziario per le spese che un bambino comporta
(ad esempio tramite un sistema di buoni da spendere in farmacie e supermercati
per l’acquisto di pannolini e latte in polvere), in un potenziamento della rete
degli asili nido comunali e – soprattutto – di quelli nei posti di lavoro.
Quest’ultimo punto, in particolare, rappresenterebbe un vero e proprio
strumento di politica industriale, nonché un volano per l’occupazione femminile
e per una reale parità tra i sessi. A ciò si potrebbe aggiungere una maggiore equiparazione
tra i diritti dei padri e delle madri, specie in ambito professionale, e un
migliore accesso al credito per i neogenitori.
La crisi generazionale in cui langue il nostro paese dagli
anni ’90 ha inculcato nel sentire comune l’idea per cui un figlio rappresenti essenzialmente
un costo insostenibile ‘con i tempi che corrono’ e uno svantaggio nell’accanita
competizione per il nostro tanto desiderato posto al sole, che tarda sempre più
ad arrivare. Checché ne dicano vecchie padrone di casa o ventenni
all’avanguardia (presunta), un figlio è innanzitutto un’occasione per
migliorarsi, come persone e come cittadini. Prima la classe politica di questo
disgraziato paese lo capirà, prima potremmo ritrovare la strada della dignità,
che da troppo tempo l’Italia sembra aver smarrito.
Nessun commento:
Posta un commento