sabato 14 luglio 2012

Il capitalismo del futuro (e del presente)

Esiste un modello di sviluppo che possa sostituire l’attuale sistema capitalistico? Forse non è così facile mettere in atto un’alternativa radicale, ma esistono delle vie di mezzo che potrebbero rivelarsi interessanti: le benefit corporation. Ce le racconta Danilo Raponi, autore di un articolo recentemente pubblicato su Che Futuro! e riprodotto qui di seguito.

Uno degli effetti collaterali più spiacevoli della crisi finanziaria mondiale è l’emergere ed affermarsi di idee, ideologie e pratiche estreme. Non mi riferisco soltanto all’emergenza nazionalismo in Europa, perché ormai di vera emergenza si tratta, ma anche alla paradossale contrapposizione di chi pensa che la crisi sarà risolta soltanto con “più mercato” e chi invece specula che vada risolta “senza mercato”.

È difficile credere alla sincerità di certi discorsi dei rappresentanti del Tea Party americano, che sembrano voler curare la malattia con lo stesso virus che l’ha causata: propongono l’abrogazione di qualsiasi regolamentazione delle attività finanziarie, il taglio di gran parte dei servizi sociali statali per le classi meno abbienti e un’aliquota massima di imposizione fiscale del 25% sia per gli individui che per le imprese. Per quanto discutibile, sarebbe una legittima proposta politica se non fosse già stata provata e messa in atto nello scorso decennio, coni risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Sul fronte opposto, il movimento Occupy Wall Street con tutte le sue ramificazioni, da Occupy London a Occupy Frankfurt e Occupy Piazza Affari, ha ancora molto da lavorare prima di riuscire a proporre un’alternativa credibile al sistema capitalistico tanto aborrito dagli “occupanti”. La loro diagnosi della crisi finanziaria è per molti versi condivisibile: è innegabile che comportamenti predatori e irresponsabili di molte istituzioni finanziarie hanno contribuito significativamente all’emergere della crisi.
È altrettanto vero che a perderci sono state soprattutto le classi medio-basse; ed è evidente che il divario tra ricchi e non-ricchi nel mondo occidentale e nei paesi emergenti si va facendo sempre più ingiustificabile e incolmabile. I problemi emergono quando si passa alla cura. Quali sono le soluzioni della crisi proposte dal movimento Occupy? Non è dato saperlo. O meglio, non è possibile avere una risposta univoca condivisa dai vari movimenti Occupy. Si sentono, e si leggono, proposte di varia natura, ma sono sempre soltanto accennate, e mai approfondite.
Forse anche perché loro stessi si rendono conto della scarsissima realizzabilità pratica di alcune delle loro idee, quelle ad esempio che porterebbero verso un primitivismo sinceramente difficile da immaginare: sembra come se la moneta debba cessare di esistere da un momento all’altro in favore del baratto. Sembra che la democrazia sia da abolire perché ha permesso l’emergere di milionari e miliardari senza merito (alternative, please?). Sembra che chiunque si azzardi anche a contraddire le loro (a volte estreme) idee sia additato come un capitalista irriducibile con il quale non si può perdere tempo a discutere (“fuori gli eretici!”: si avvertono i sinistri sintomi dell’emergere di una nuova religione politica…).
Dove voglio arrivare? Lo scopo di questo mio articolo è la proposta di un’alternativa tanto al capitalismo classico che all’anti-capitalismo di Occupy. È la proposta di una terza via. No, non mi chiamo Tony Blair. Che il capitalismo, e l’economia di mercato, siano due delle invenzioni umane che in maggior misura hanno contribuito al raggiungimento del benessere materiale per una grande fetta della popolazione mondiale, non è – e credo non possa essere – oggetto di discussione.
Come questo benessere sia stato creato, invece, deve e può essere discusso. La macchina capitalistica, nel suo processo di distruzione creativa, ha distrutto più di quanto ci aspettassimo. Ha minato le basi della convivenza civile e sociale, ha spinto verso una logica del profitto assoluto senza alcuna considerazione etica o morale, ha sradicato i valori della comunità, della solidarietà, dell’equità. Si cerca il profitto a tutti i costi. E si dimentica che ciò che ci rende uomini e donne, che realizza a pieno la nostra umanità, esula da un discorso puramente economico.
Il diritto alla ricerca della felicità, sancito nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, ma diritto fondamentale di un’ipotetica Costituzione degli “Stati Uniti del Mondo” immaginata da Luca Taddio nel suo saggio Global Revolution, non lo si rispetta soltanto con il successo economico. Cultura, sostenibilità, attenzione al prossimo e alla natura, dedizione al bene pubblico, virtù civica, vocazione all’equità e alla giustizia: è con il conseguimento di questi ideali di vita che l’essere umano raggiunge le vette di ciò che la ragione e il libero arbitrio gli permettono di essere.

C’è bisogno di nuovo modello economico e di un nuovo assetto societario
che combinino l’esigenza di creare ricchezza con una sua più equa distribuzione
e una maggiore considerazione per gli aspetti non materiali della vita umana

Senza pretese di voler cambiare il mondo, ma soltanto di renderlo un po’ più giusto di quanto sia adesso, in America si va diffondendo un nuovo tipo di azienda, che non è né la tipica società a scopo di lucro, né la società senza alcuno scopo di lucro, o no profit, bensì una via di mezzo. Di nuovo, una terza via, e no, non l’ha inventata Tony Blair. Si chiama benefit corporation e nasce in Maryland nel 2010, come risposta all’impellente esigenza di riesaminare i modelli aziendali esistenti durante l’irrompere della crisi finanziaria.
Ora è prevista e regolamentata in otto stati americani. L’idea è semplice: la benefit corporation somiglia a una tradizionale azienda for profit, con la sostanziale differenza che nel suo operare deve tener conto di fattori che vanno al di là del profitto e costituiscono obiettivi sociali, ecologici e di cura della comunità che ospita l’azienda. Nata sotto modesti auspici, come semplice argine all’apparentemente incontrollabile avidità del moderno uomo d’affari, dopo solo due anni di vita la benefit corporation si presenta addirittura come valida alternativa al sistema capitalistico oggi in profonda crisi. Perché si diffondano ulteriormente, tuttavia, c’è bisogno di un’accorta legislazione che recepisca questo nuovo modello societario e lo armonizzi con il diritto aziendale e commerciale vigente.
Dal 2010 a oggi, gli otto stati americani che consentono la fondazione di benefit corporation hanno nel tempo affinato la legislazione, che tuttavia richiederebbe ulteriori aggiustamenti per essere importata in Europa. Sarebbe opportuno che i governi europei, oltre a necessarie ma sterili politiche dell’austerità, provvedessero a favorire la crescita post-crisi con modelli innovativi che vadano oltre il capitalismo tradizionale, il quale d’altronde non sembra avere più le capacità per riprendersi appieno.
Perché non partire dall’Italia? Perché non dare un segnale all’Europa e al mondo che non solo l’Italia non è moribonda, checché ne dica lo spread, ma è anzi all’avanguardia nella formulazione di risposte alternative per uscire dalla crisi. La popolazione ne sarebbe allo stesso modo incuriosita e allettata, perché una tale riforma combinerebbe fortissimi elementi di innovazione con una prospettiva di riduzione dell’imposizione fiscale. Difatti, nel momento in cui le nuove benefit corporation cominceranno a produrre profitti sufficienti ad occuparsi di temi di dominio tipicamente pubblico - come le politiche per l’ambiente e per la coesione sociale – queste spese potranno essere gradualmente ritirate dal bilancio pubblico, mentre il controllo e la gestione resterebbero con le amministrazioni locali per garantire imparzialità nell’uso dei fondi.
Come rilevato da un articolo del Financial Times del 11 giugno scorso, la benefit corporation è ancora ad uno stato di sviluppo post-embrionale, ma è già notevole il successo di alcune aziende che hanno saputo e voluto reinventarsi seguendo questo nuovo modello di organizzazione aziendale. Si pensi a Patagonia, industria tessile californiana specializzata in abbigliamento sportivo, o alla Give Something Back Office Supplies, che già dal nome evidenzia la sua missione benefattrice. Il suo slogan, “valori, non solo valore”, è la sintesi ciò a cui aspirano le benefit corporation. Queste, infatti, senza dimenticare il profitto, ne devolvono gran parte a cause da loro considerate meritorie: ad esempio, la Office Supplies nel 2011 ha donato 800mila dollari (70% del profitto annuale) alla comunità locale di Oakland, California, dove ha sede l’azienda. La nascita delle prime benefit corporation ha portato anche ad inaspettati benefici collaterali.
La consapevolezza di un più alto scopo, oltre al mero profitto (come ad esempio il miglioramento della performance sociale ed ecologica dell’azienda), rende questo tipo di imprese più semplici da dirigere rispetto ad aziende tradizionali. Lo sostengono Sean Mark di Office Supplies e Gary Gerber di Sun Light & Power. Lo stesso Sean Marx riferisce della facilità nel reclutare i migliori talenti sul mercato che, una volta assunti, mostrano una passione e dedizione fuori dal comune, soprattutto grazie alle motivazioni e soddisfazioni non esclusivamente economiche che il lavoro in una benefit corporation implica.
Esistono naturalmente altri modi per rendere un’azienda socialmente responsabile ed ecologicamente sostenibile. Molte grandi e medie aziende (ma poche italiane) si sono ormai dotate di un dipartimento di Corporate Sustainability, mentre altre si ergono in modi diversi a sostenitrici di un “capitalismo coscienzioso”. Come ad esempio la Whole Foods di John Mackey. Altre ancora, però, temono che senza la protezione giuridica garantita dalle leggi che governano le benefit corporation, possano trovarsi in balia degli umori, preferenze e ricatti di investitori che, all’improvviso, dispongano dei mezzi per condizionare le politiche di sostenibilità aziendali con criteri contrari alle finalità sociali dell’azienda stessa.
Lo spettro di Ben & Jerry’s, famosissimo produttore di gelati che nel 2000 fu acquisito dalla multinazionale Unilever nonostante la presenza di una controfferta di altri investitori più attenti a tematiche sociali (l’offerta era più bassa e dunque non gradita agli azionisti), incute ancora timore nella cerchia degli imprenditori americani socialmente impegnati. Rick Ridgeway ha scelto di trasformare la sua Patagonia in una benefit corporation proprio per evitare il rischio che futuri proprietari possano alterare ed eventualmente distruggere il delicato e complesso equilibrio tra profittabilità e sostenibilità da lui ideato e trovato.
Le benefit corporation hanno molta strada davanti a loro, non priva di ostacoli. Negli otto stati americani che prevedono questo modello aziendale, soltanto una minoranza di aziende ha deciso di trasformarcisi, ma l’andamento è positivo. C’è bisogno di maggior coraggio da parte di imprenditori, manager e investitori e di una più accentuata presa di coscienza che il nostro pianeta non si lascerà sfruttare all’infinito, che dalla logica del profitto senza remore non potrà vincere nessuno, che da una maggiore attenzione a ciò che ci circonda beneficeranno tutti.
L’attuale governo italiano dovrebbe prendere la palla al balzo e solcare l’onda delle benefit corporation, proponendo una legge che le renda possibili anche in Italia. Le competenze tecniche e capacità culturali dei membri dell’esecutivo dovrebbero permetterne un’accurata analisi dei benefici e degli svantaggi. Infine, la spiccata attitudine all’innovazione del ministro Corrado Passera dovrebbe consentirgli di percepire che, per adesso, non sembra esistere alternativa più promettente alla forma di capitalismo che conosciamo, ma che non risponde più alle esigenze di un mondo in continua trasformazione ed espansione.

Danilo Raponi

Articolo riprodotto su licenza Creative Commons (CC BY-NC-ND 3.0).

lunedì 9 luglio 2012

Quello di cui l'Italia ha bisogno: Noi Giovani

Noi Giovani dobbiamo smettere di delegare la rappresentanza dei nostri interessi e delle nostre esigenze a chi ha dimostrato di non saperli gestire. Il vero conflitto di interessi, quello di cui nessun politico parla perché tutti i politici oggi ne sono affetti, è quello generazionale. I nostri governanti di oggi sono tutti, a pieno titolo, nella seconda o nella terza età. Anche se in buona fede, essi saranno sempre portati a tutelare più gli interessi dei loro coetanei che quelli delle nuove generazioni. 

Per questo, Noi Giovani dobbiamo occuparci personalmente di ciò che ci sta più a cuore: dobbiamo riprendere in mano direttamente il nostro presente e determinare il nostro futuro! 

Da questa presa di coscienza nasce Noi Giovani. L’idea è quella di creare un movimento, non caratterizzato ideologicamente, che rappresenti tutti i giovani nella loro trasversalità, nelle loro differenze d’opinione e nei loro interessi. Che porti avanti un’agenda essenziale ma diretta ed efficace: proposte in ambito economico, sociale, civile ed educativo che svecchino questo Paese e concentrino investimenti e risorse su chi ha ancora la maggior parte della propria vita di fronte, liberandone le energie. Lo scopo è di fare dell’Italia un paese per giovani, dove chi ha un minimo di ambizione – personale, familiare, economica – non debba mettersi in coda per cercare una raccomandazione presso il dinosauro di turno o preparare le valigie e trasferirsi all’estero. È ormai chiaro a tutti noi quanto sia inutile delegare a chi giovane non lo è più la realizzazione dei nostri sogni. Noi Giovani non solo vogliamo rappresentarci direttamente, essere la lobby, il sindacato, il partito di noi stessi, ma siamo anche convinti di essere gli unici, in questo momento storico, a poter interpretare il cambiamento di cui l’Italia ha assoluta necessità. La nostra ambizione è quella di imporre nella politica italiana una nuova agenda, che abbia al centro la vera questione del paese, quella generazionale, e di portare all’interno delle istituzioni chi fino a ora è rimasto senza voce. 

Noi Giovani siamo l’ultima speranza di un Paese in crisi. Siamo quello di cui l’Italia ha bisogno.

sabato 7 luglio 2012

Tra Seconda e Terza Repubblica

Si è mai visto un giovane in politica nel nostro Paese? Uno che la faccia davvero, uno che proponga e decida? In Italia, a 40-50 anni si è ancora considerati politicamente degli esordienti. 
Negli Stati Uniti c’è un presidente che, se rieletto, a 55 anni avrà portato a termine il suo secondo mandato. In Gran Bretagna, David Cameron è diventato Primo Ministro a 43 anni; quando ha vinto le sue prime elezioni, Tony Blair di anni ne aveva 44. In Danimarca, addirittura, nel 2011 è stato nominato un Ministro delle Finanze di 26 anni. In Italia gli ultimi tre Presidenti della Repubblica sono stati eletti a 73 anni (Scalfaro), 78 anni (Ciampi) e 80 anni (Napolitano). Lo stesso si può dire degli ultimi tre Premier: Prodi nel 2006 aveva 66 anni, Berlusconi nel 2008 ne aveva 71, Monti si è insediato a 68 anni. L’età media dei suoi Ministri è di 64 anni e il più “giovane” di loro è Patroni Griffi, che ne ha 56. 
Le ultime elezioni amministrative hanno lanciato segnali inquietanti all’attuale classe dirigente, che probabilmente risponderà alla sfida delle elezioni del 2013 sfoggiando un ‘giovanilismo’ che poco o nulla ha davvero a che fare con le reali esigenze, bisogni e aspirazioni di Noi Giovani. 
Basta dare un’occhiata a ciò che offre oggi la piazza. Nel centrodestra, il PDL può sbandierare il più giovane segretario di partito del paese. Ma, oltre ad essere sulla via del commissariamento, il 42enne Angelino Alfano non ha mai avuto – né mai avrà – una vera autonomia politica rispetto a Berlusconi. Il PDL era e resta un partito smaccatamente gerontocratico. 
A sinistra le cose non vanno meglio: Pierluigi Bersani ha 61 anni e la classe dirigente del PD, nonostante i vari cambi di nome del partito, è la stessa da quasi trent’anni. I più ‘giovani’ vengono mandati al Parlamento Europeo, dove ‘si fanno le ossa’ e, soprattutto, non danno troppo fastidio. L’IDV è il partito più conservatore d’Italia, con alla testa un leader di 61 anni e SEL, il partito che dovrebbe rappresentare i progressisti, è guidato da un 53enne che da anni cerca di acquisire uno spessore nazionale senza riuscirci. 
E il nuovo che avanza? Beppe Grillo di anni ne ha 64. Sicuramente gli eletti del Movimento 5 Stelle rappresentano l’offerta politica più ‘giovane’ a disposizione nel nostro Paese, ma si tratta dell’ennesimo movimento generalista, che solo all’apparenza affronta i problemi dell’Italia in modo innovativo. Il Movimento 5 Stelle vuole rappresentare gli interessi di questa o quella comunità locale; Noi Giovani vogliamo invece rappresentare gli interessi di una intera generazione, che oggi è schiacciata dal peso delle scelte sbagliate compiute dalle generazioni precedenti e della mancanza di rappresentanza dei suoi bisogni. 
Così, all’alba di un nuovo terremoto per la politica italiana, mentre la vecchia classe dirigente sventola la bandiera del ‘giovanilismo’ solo perché ‘giovane’ è la nuova parola d’ordine del sistema, Noi Giovani, quelli veri, rischiamo di ritrovarci ancora una volta senza rappresentanza, fuori dal Parlamento e dal governo, privati della possibilità di essere noi stessi in prima persona a prendere le decisioni che segneranno il futuro del Paese. Il nostro futuro, non certamente quello di chi oggi ha 70 anni e pretende di decidere come sarà l’Italia del 2030!

giovedì 5 luglio 2012

L'Italia è un Paese per vecchi

Noi Giovani siamo il vero ammortizzatore sociale di questo Paese: su di noi sono state scaricate per troppo tempo le emergenze del presente. Una classe dirigente incapace di guardare a coloro che verranno dopo, a Noi Giovani, all’Italia di domani, è una classe dirigente incapace di dare futuro al Paese. 

L’Italia, come la quasi totalità dei paesi al mondo, finanzia il funzionamento della propria macchina statale contraendo un debito continuo – ovvero, scaricando su chi verrà dopo la responsabilità di ripagare i creditori. La stessa identica cosa è stata fatta con Noi Giovani: politiche sociali, economiche ed industriali vengono adottate con il mero orizzonte temporale della contingenza, per sanare emergenze, senza prenderne in considerazione il costo per le generazioni future. È stato così con le pensioni, con il mercato del lavoro, con l’istruzione. 

Incolpano la crisi, l’Europa, l’euro, i tempi che corrono. Dovrebbero incolpare loro stessi. Perché biasimarli? In fondo, hanno costruito un Paese a loro immagine e somiglianza: l’Italia È un paese per vecchi.

La classe dirigente politica più vecchia d’Europa non poteva comportarsi diversamente. È naturale per un 60enne fare politiche per persone che guardano ormai alla ‘seconda’ parte della loro vita. Oggi, la Seconda Repubblica è in fase di decomposizione e i politici italiani, per prepararsi allo smottamento che avverrà con l’arrivo della Terza, hanno iniziato a riempirsi la bocca con parole come cambiamento, nuova classe dirigente, ricambio generazionale: in una parola, ‘giovani’. Ma si può davvero credere che chi ha detenuto saldamente il potere amministrandolo in modo disastroso negli ultimi vent’anni si faccia da parte, lasciando tutto in mano ad altri? È più probabile che questi appelli al ‘nuovo’ siano un mero tentativo di rifarsi la verginità.