giovedì 27 settembre 2012

Aumentare la produttività e salvare le foreste? Muovendosi Agile!

di Stefano Marangoni


Spesso negli ultimi tempi abbiamo sentito dire che il PIL italiano va a picco. Altrettanto spesso ci sono state proposte soluzioni perlomeno discutibili, come ad esempio la riduzione delle festività: se c’è poco lavoro, a cosa serve essere alla propria scrivania a Ferragosto?
Il problema vero è casomai la scarsa produttività italiana, dovuta da una parte ad inefficienze, dall’altra a scarso stimolo dei dipendenti. Chiunque abbia lavorato in una Pubblica Amministrazione o in una grande azienda sa che si passa la maggior parte del proprio tempo a compilare documentazione, preparare report, chiedere autorizzazioni, lasciando alle attività tipiche della propria professione uno spazio residuale. È un problema non solo italiano, sia chiaro: l’enorme mole di documentazione richiesta in un progetto di una grande azienda o di una grande amministrazione pubblica è una caratteristica comune a tutte le società industriali avanzate. Nel nostro Paese però questa tendenza universale si associa ad una propensione tutta italica alle procedure barocche, che rende ancora più evidente (e paralizzante) il problema.
Come venirne fuori? Smettendola di pensare alle industrie come se fossero ancora quelle di 40 anni fa. E’ compito di Noi Giovani introdurre nuove metodologie lavorative, figlie dei nostri tempi.
In uno dei settori industriali più giovani, quello del software, questo problema è già stato affrontato. Era il 2001 ed un gruppo di guru dell’informatica si riunirono e scrissero quello che è passato alla Storia come Manifesto Agile [1]:
Stiamo scoprendo modi migliori di creare software,
sviluppandolo e aiutando gli altri a fare lo stesso.
Grazie a questa attività siamo arrivati a considerare importanti:
Gli individui e le interazioni più che i processi e gli strumenti
Il software funzionante più che la documentazione esaustiva
La collaborazione col cliente più che la negoziazione dei contratti
Rispondere al cambiamento più che seguire un piano
Ovvero, fermo restando il valore delle voci a destra,
consideriamo più importanti le voci a sinistra.
Da questo Manifesto sono state sviluppate diverse metodologie operative per lo sviluppo software, che una volta applicate hanno consentito una riduzione drastica dei tempi di consegna del software, oltre ad una maggiore soddisfazione del cliente.
Queste metodologie sono però pensate per il mondo dell’industria del Software e non possono essere prese ed utilizzate così come sono anche in altri ambiti. Questa obiezione, facile ed immediata, è alla base del lavoro di vari gruppi nel mondo per esportare queste metodologie in altri campi. Tra questi, il più importante ed interessante è sicuramente il gruppo di Wikispeed [2], guidato da Joe Justice.
È bene presentare il progetto Wikispeed con le parole usate dallo stesso Joe Justice in un’intervista al blogger italiano Simone Cicero [3]:
Wikispeed costruisce autovetture ultra efficienti e lo fa con cicli di sviluppo di sette giorni utilizzando metodologie Agili.
La manifattura tradizionale vive di cicli di sviluppo prodotto che vanno da 3 a 25 anni: questo significa che si può andare ad un concessionario Porsche e comprare una nuova Porsche 911, un auto che rappresenta il meglio che gli ingegneri Porsche ritenevano possibile 24 anni fa e, se continuiamo su questo esempio, Porsche ha recentemente annunciato che l’attuale Porsche 911 starà con noi per i prossimi 14 anni.
In Wikispeed puntiamo alla personalizzazione di massa, a uno sviluppo molto rapido e a tecnologie ed efficienze che non sono ancora esistenti, che sono pienamente gamechanging e non solo una evoluzione incrementale di tecnologie vecchie e talvolta già defunte.
Per fare questo dobbiamo iterare i cicli di sviluppo su sette giorni, che significa che possiamo cambiare ogni aspetto della vettura ogni sette giorni. Ciò è possibile attraverso la modularità: l’auto si divide in otto moduli che sono debolmente accoppiati in modo che si possa cambiare uno e non cambiare gli altri.
Wikispeed ha come missione quello di risolvere rapidamente i problemi per il bene sociale. Non ci limitiamo alle automobili: di recente ho tenuto una conferenza sui metodi per la distribuzione del vaccino per l’eradicazione della Polio; abbiamo lavorato con un gruppo di medici che sviluppa i centri per l’assistenza a basso costo e le comunità che possono alimentarli e su questo progetto abbiamo fatto un notevole lavoro con loro.

Il team Wikispeed, per sviluppare le proprie auto modulari, ha elaborato una evoluzione di una delle metodologie Agile ( la XP, Extreme Programming) e l’ha chiamata Extreme Manufacturing, XM.
Riprendendo un altro estratto dall’intervista di Simone a Joe Justice:

XM è la metodologia per consentire alle altre imprese di fare questo cambiamento alla stessa velocità di Wikispeed. XM è una metodologia agile: ci vogliono le migliori metodologie applicate dalle migliori squadre di svilippo software, estrapolate per renderle applicabili a tutti i settori.
In particolare stiamo applicando questi metodi alla ricerca e sviluppo, alla produzione fisica o all’ingegneria e pensiamo che una tale processo possa essere utilizzato anche per la finanza, le assicurazioni, l’energia, la legge, la gestione della comunità, l’edilizia residenziale e commerciale e anche altre imprese.
XM adotta tutte le best practice per la gestione dei team distribuiti, i principi dell’ingegneria e del design frugali e le applica al mondo fisico della manifattura.
Chiedere ad una Pubblica Amministrazione di uno Stato come l’Italia, o ad un grande gruppo industriale come Finmeccanica, di adottare delle metodologie che sono ancora in prima evoluzione è chiaramente una follia. Sarebbe bello però che un ministro si occupasse del tema della crescita del PIL affrontando di petto la scarsa produttività italiana con soluzioni innovative. Si potrebbero scegliere dei progetti pilota, in cui l’intera catena produttiva è sotto controllo dello Stato (ad esempio, la costruzione di un treno per Trenitalia commissionata ad Ansaldo Breda, gruppo Finmeccanica, in cui i sottosistemi del treno in questione vengono prodotti da altre società del gruppo Finmeccanica) e avviare su questi progetti una sperimentazione di nuovi metodi di lavoro, basati sul Manifesto Agile e sulle metodologie derivate da questo.  Gli aspetti che meglio funzionano in questi progetti, potrebbero poi essere adottati su larga scala in tutto il gruppo Finmeccanica, lasciando i metodi ancora da rodare ai progetti pilota. Poi si potrebbe passare da Finmeccanica alla Pubblica Amministrazione, portando anche in questa realtà le soluzioni meglio riuscite e già sperimentate. Così facendo, in un paio di anni potremmo passare dall’essere un Paese a scarsa produttività ad essere un esempio e un avanguardia per tutto il mondo.
Per chi non lo sapesse, Joe Justice sarà a Roma il 29 Settembre per parlare di Wikispeed e di metodologie Agili. Una delegazione di Noi Giovani (guidata dal sottoscritto) sarà presente. Secondo voi ci saranno altri movimenti politici?

lunedì 24 settembre 2012

Una scelta normale: essere genitori giovani in un’Italia vecchia

di Dario D'Urso


Primo episodio: una giovane coppia (29 anni entrambi) non sposata cerca una casa da acquistare a Roma. Pur conoscendo bene l’impossibilità dell’impresa, in considerazione del mercato immobiliare ‘drogato’ della Capitale, i due ci provano lo stesso, dando un’occhiata – che tracotanza! – anche ai quartieri centrali. Lei, in tutto questo, è al quinto mese di gravidanza. I nostri visitano uno di quegli appartamenti fatti apposta per una coppia di innamorati e con un prezzo da coppia di rampolli dell’alta finanza. Al momento del congedo, la sessantenne padrona di casa, guardando il pancione di lei, non riesce a trattenere un appello dal vago sapore di ammonizione verso i due (im)probabili acquirenti: ‘aspettate un bambino? Alla vostra età? Certo, ne avete di coraggio…’. I nostri due amici si guardano in faccia, un po’ increduli e un po’ infastiditi. Sono lì lì per replicare e far valere il merito di una scelta normale che, in tempi generazionalmente perversi come i nostri, sembra essere diventata un atto eroico, quasi incosciente. Poi ci ripensano, alzano le spalle, accennano un falso sorriso di cortesia alla severa detentrice dell’ordine generazionale italiano (e di un costosissimo buco monticiano) e se ne vanno.  
Secondo episodio: stessa coppia di prima, ma con il pargolo già arrivato. Lui, il neopapà, si ritrova per varie peripezie ad una cena di amici, da solo. È seduto accanto a delle ragazze che non conosce, ma che, incuriosite dalla valanga di auguri, brindisi e pacche sulle spalle che riceve, gli chiedono il perché di tutta questa celebrazione. ‘È che sono diventato padre’, risponde, un po’ timido, il nostro. ‘Ma scusa, quanti anni hai?’, fa una delle vicine di tavolo, più confusa che persuasa. Il ‘ventinove’ di risposta scatena un meravigliato, quasi urlato ‘allora sei un ragazzo padre!’. A quel punto, il nostro giovane genitore, pensando a quanto in effetti gli piacerebbe avere 6-7 anni in meno, si tuffa sul piatto di pasta che ha di fronte, non prima di aver pronunciato un ‘eh..’ pregno di significati.
Cosa ci dicono questi due episodi (realmente accaduti)? Che per due persone appartenenti a generazioni molto lontane (una sessantenne e una ventenne) l’idea che una coppia di quasi trentenni decida di mettere al mondo un figlio sia, perlomeno, curiosa. Non al passo con i tempi, forse; sicuramente temeraria. Ecco a voi l’effetto sulla mente degli italiani (di tutte le età) di vent’anni di precarietà e di totale disinteresse per le nuove generazioni. In un paese in cui le politiche di appoggio alla paternità/maternità sono pressoché inesistenti, in cui a 30 anni è più che normale saltare da un contratto all’altro e in cui a 40 si è ancora troppo giovani per occuparsi della cosa pubblica, si è consumata la deresponsabilizzazione di un’intera generazione. In questo contesto, il legittimo desiderio di molti giovani italiani di avere un figlio viene mortificato due volte: logisticamente – per la mancanza di un appoggio istituzionale – e culturalmente –  perché ormai è comunemente accettato che si diventi genitori intorno ai 40 anni.
Chi si scaglia contro questo genere di situazioni lo fa spesso da posizioni religiosamente ‘interessate’, assoggettando il tema della procreazione ad un’imprescindibile morale cattolica. Ciò svilisce il tema, che è invece di assoluta rilevanza anche per chi non è credente e – soprattutto – per chi non vede nel matrimonio una precondizione alla scelta di diventare genitore. Si tratta di una battaglia squisitamente laica, una vera e propria sfida generazionale, la cui stessa esistenza rappresenta un ulteriore segnale della senescenza della nostra classe politica – che, semplicemente, non si pone un problema non suo.
Come si può invertire la tendenza? Qualsiasi intervento pubblico a riguardo dovrebbe rispondere ad una semplice logica: semplificare la vita di coloro che, pur non godendo del tutto di una stabilità professionale,  nonché di quella rete di sicurezza spesso rappresentata dalle famiglie di origine, decidono di avere un figlio. Questo può tradursi in un appoggio finanziario per le spese che un bambino comporta (ad esempio tramite un sistema di buoni da spendere in farmacie e supermercati per l’acquisto di pannolini e latte in polvere), in un potenziamento della rete degli asili nido comunali e – soprattutto – di quelli nei posti di lavoro. Quest’ultimo punto, in particolare, rappresenterebbe un vero e proprio strumento di politica industriale, nonché un volano per l’occupazione femminile e per una reale parità tra i sessi. A ciò si potrebbe aggiungere una maggiore equiparazione tra i diritti dei padri e delle madri, specie in ambito professionale, e un migliore accesso al credito per i neogenitori.
La crisi generazionale in cui langue il nostro paese dagli anni ’90 ha inculcato nel sentire comune l’idea per cui un figlio rappresenti essenzialmente un costo insostenibile ‘con i tempi che corrono’ e uno svantaggio nell’accanita competizione per il nostro tanto desiderato posto al sole, che tarda sempre più ad arrivare. Checché ne dicano vecchie padrone di casa o ventenni all’avanguardia (presunta), un figlio è innanzitutto un’occasione per migliorarsi, come persone e come cittadini. Prima la classe politica di questo disgraziato paese lo capirà, prima potremmo ritrovare la strada della dignità, che da troppo tempo l’Italia sembra aver smarrito. 

giovedì 20 settembre 2012

Le convention americane (e lezioni per le primarie)

di Danilo Raponi (articolo apparso in precedenza su iMille)


Con le convention di fine estate i democratici e repubblicani americani tradizionalmente scelgono i loro candidati per le cariche di presidente e vice presidente degli Stati Uniti. Quest’anno si sono tenute dal 2 al 6 settembre 2012 a Tampa, in Florida, e a Charlotte, North Carolina. I repubblicani hanno sancito la nomination di Mitt Romney a presidente e Paul Ryan a vicepresidente, mentre i democratici hanno confermato il ticket Obama-Biden. Prima di entrare nel merito dell’articolo, con il quale mi propongo di analizzare i meriti e demeriti democratici della convention come strumento politico, è opportuno precisare che fino al 1960 erano molto diverse da quello che sono oggi: nelle convention i delegati discutevano, dibattevano, si scontravano, cercavano posizioni comuni, esaminavano i candidati e, soltanto alla fine, esprimevano il proprio voto che, talvolta, non mancava di riserbare sorprese.

In alcune occasioni non si riuscì neppure ad esprimere una chiara maggioranza, se non dopo ripetute votazioni, come quella che nel 1932 vide Franklin Delano Roosevelt nominato soltanto dopo la quarta sessione di voto, che si tenne nelle tarde ore della notte. Il suo oppositore di allora, Wendell Willkie, andò poi a vincere la nomination repubblicana nel 1940 al sesto ballottaggio. Nel 1956 Adlai Stevenson, riscontrando contrasti pressoché insanabili tra due anime del partito democratico, chiese ai delegati della convention di scegliere il candidato a vice presidente tra John F. Kennedy e Estes Kefauver, a favore di quest’ultimo. L’ultima convention che svolse davvero il suo ruolo di organo con poteri decisionali fu quella del partito democratico nel 1968, che elesse Hubert Humphrey a candidato alla presidenza, nonostante non avesse neppure partecipato alle primarie. Quest’ultime erano state vinte da Eugene McCharty, che vi partecipò con un piattaforma fortemente contraria alla guerra in Vietnam, ma nulla poté contro il voto dei delegati.

Questo episodio spinse il partito democratico a convocare una commissione speciale, la quale stabilì che da allora in poi i candidati alla presidenza sarebbero stati scelti tramite le primarie, con i delegati che avrebbero votato secondo le indicazioni espresse dai cittadini. In teoria, ancora oggi, è possibile che le primarie non riescano ad individuare un candidato con una solida maggioranza, e in questo caso la convention servirebbe a raggiungere un compromesso su un candidato, anche tra chi non ha partecipato alle primarie. Ma è molto poco probabile che ciò accada. Ecco dunque che le convention moderne si sono trasformate, più che altro, in un grande esercizio di public relations, sono strumenti di propaganda politica piuttosto che di selezione di un candidato espressione del partito.

Non bisognerebbe però lasciarsi andare alla tentazione di compiangere la formula originaria della convention, dove si annidavano interessi speciali, spesso corporativi e poco trasparenti, che portavano a scelte talvolta dettate da preferenze più particolari che generali. È però pur vero che, oltre tutti i loro difetti, le vecchie convention esaltavano l’arte del compromesso, fondamentale per il buon governo. In questo modo, le ali estreme del partito perdevano molta della loro importanza e i “grandi saggi” di ogni partito appoggiavano i candidati che con maggiore probabilità avrebbero potuto conquistare il centro politico, essenziale per il successo nelle elezioni generali.

Adesso, invece, sembra che “centro” sia un’espressione volgare e che il compromesso sia da considerarsi come manifestazione di debolezza e dunque da evitarsi in qualsiasi modo, con il risultato che le convention non fanno che esaltare le opinioni dei più intransigenti. Quest’anno è stato particolarmente evidente nella convention repubblicana, dove Chris Christie e Marco Rubio, due delle menti più fini del partito repubblicano, hanno a malapena accennato a Romney e Ryan, preferendo invece parlare più di loro stessi e di astratte idee conservatrici, dando dunque l’impressione di pensare alle loro carriere piuttosto che a quella di Romney: difatti, l’insuccesso di quest’ultimo alle elezioni di quest’anno renderebbe una loro candidatura alla nomination repubblicana del 2016 molto probabile, altrimenti se ne riparlerebbe nel 2020.

Nel complesso, tuttavia, le convention moderne sono da preferirsi su quelle antiche. L’introduzione delle primarie “vincolanti” ne ha determinato la loro natura molto democratica e aperta, e il fatto che ormai non servano più a nulla se non a pubblicizzare il candidato già scelto è forse un bene, in quanto interessi speciali e “baroni” di partito non possono più interferire nella scelta degli elettori. Spesso le nuove convention servono anche a chiarire il programma elettorale e la filosofia politica di ogni candidato, seppure la convention repubblicana di quest’anno sia stata deludente anche da questo punto di vista. Abbiamo capito tutti che i repubblicani amano le loro famiglie più di qualsiasi altra cosa e sono contrari a ogni proposta politica che si possa scontrare contro il concetto tradizionale di famiglia. Abbiamo anche appreso che i repubblicani pensano che “we are on our own”, che siamo da soli nella società e che dovremmo essere soltanto noi stessi ad aiutarci in momenti di difficoltà, non lo stato. Infine, abbiamo anche assistito alla rivendicazione dell’individualismo assoluto dell’I built it, in aperta polemica con Obama il quale aveva ragionevolmente affermato che anche l’imprenditore più di successo deve qualcosa alla società che ha permesso che la sua idea si affermasse e che ha fornito gli strumenti e l’ambiente favorevole alla sua creazione. Apparentemente, i repubblicani sembrano credere che Mark Zuckenberg abbia creato Facebook da solo, così come Bill Gates aveva fatto con Microsoft (entrambi gli interessati, tra l’altro, smentiscono che una cosa del genere sarebbe mai stata possibile).

Le convention moderne svolgono anche l’importantissimo ruolo di coinvolgere la base del partito, con i migliaia di giovanissimi volontari che rendono l’evento possibile, ma anche e soprattutto con i discorsi che si susseguono nei tre giorni dell’evento. Il keynote speaker è spesso l’astro nascente del partito, tanto che nella convention democratica del 2004, quella che sancì la nomination di John Kerry, a dare il keynote speech fu chiamato un signore allora semi-sconosciuto, di nome Barack Obama, che non impiegò molto, da quel momento che lo consacrò all’attenzione del mondo, a divenire il primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti d’America. Quest’anno il keynote speaker per la convention repubblicana è stato Chris Christie, mentre al quarantaduenne senatore Marco Rubio è stato affidato il discorso di introduzione alla nomination di Mitt Romney. Entrambi Christie e Rubio sono da tenere d’occhio, ne sentiremo parlare ancora indipendentemente dall’esito delle elezioni del prossimo novembre.

Per i democratici è stato addirittura il trentasettenne Julian Castro, sindaco di San Antonio, a farsi carico del keynote speech. Con una brillante carriera politica avviata già da tempo, il giovane Castro è una delle promesse del campo democratico. Alla convention democratica ha parlato anche la trentunenne Tulsi Habbard, un’hawaiana e veterana di guerra che, se eletta al Congresso, sarà la prima donna veterana di guerra ad occupare un seggio del Congresso americano e la prima Hindu. È un’altra rising star dei democratici. A differenza della convention repubblicana, in quella democratica si è anche parlato di contenuti, di idee, di programmi. Con un discorso esemplare e seguitissimo, Bill Clinton ha spiegato all’America che questa, più che mai, è un’elezione in cui si andrà a scegliere non già tra due uomini, bensì tra due visioni diverse del ruolo del governo e dello stato nella società. I repubblicani, polarizzati dai tea party, sembrano avere come obiettivo unico la riduzione delle tasse per i più ricchi e i tagli ad alcune voci della spesa pubblica necessarie a creare opportunità e garantire assistenza sociale e sanitaria per le classi povere. I democratici, invece, sostengono convinti che, nelle parole di Clinton, “we are all in this together is a better slogan than you’re on your own” (siamo tutti assieme in questo è uno slogan migliore di sei da solo), che il ruolo dello stato negli anni a venire sarà fondamentale, come garante di equità, di opportunità per tutti, di giustizia sociale, di regolamentazione ferrea ma non oppressiva del settore finanziario, di guida degli Stati Uniti e dell’occidente in un mondo instabile e pericoloso.

Lunga vita alle convention allora! Nonostante i loro difetti e la loro tendenza a divenire strumenti di “marketing”, le convention americane moderne rimangono pur sempre uno straordinario strumento di democrazia. Di più, sono uno dei tasselli fondamentali della più grande democrazia del mondo: presentano i candidati al paese, chiariscono le idee dei partiti, e offrono una piattaforma di lancio per i futuri leader. Nulla di tutto ciò esiste, purtroppo, in Italia, dove i partiti cercano di evitare in tutti i modi di indire congressi e, pur quando indetti, li riducono a un osanna collettivo e artificiale al Grande Burattinaio di turno, per riscoprire una felice espressione di Ernesto Galli della Loggia. Possibilità di scelta e di intervento da parte dei cittadini non sono previste. Degli esponenti più giovani del partito, poi, nessuna traccia. Sembra che uno dei requisiti per parlare a un congresso di partito in Italia sia l’essere già stati in Parlamento per almeno 20 anni. C’è da sperare, per il bene della politica italiana, che il Partito Democratico voglia invertire questa tendenza con l’indizione di primarie serie e veramente competitive e, perché no, con la consacrazione del candidato prescelto dai cittadini in una convention in vero stile americano.

lunedì 17 settembre 2012

Noi Giovani: un nuovo partito per una nuova politica


di Andrea Danielli

La società civile percepisce chiaramente la fine di un’era e si getta a capofitto nell’arena politica. Emergono nuovi partiti e nuovi movimenti e la loro anagrafe diventa ogni giorno più ricca.
Vedo una forte presenza di partiti riformisti, votati a cambiare l’Italia, a renderla un paese più moderno ed efficiente.
Non nascondo una certa affinità con i loro progetti ma, allo stesso tempo, sento il dovere di metterli in guardia da un rischio oggi sottovalutato: quello di parlare a un’elite.
È importante rivolgersi al mondo start up, promuovere un’agenda digitale, avvalorare il merito, pensare a come diminuire le spese dello stato e ridurre il debito pubblico.
Ma occorre rendersi conto che la politica è creazione del consenso e che, se si vogliono vincere le elezioni in Italia, occorre parlare al più ampio numero possibile di persone, non solo a quel 2-3% di giovani imprenditori, esperti di macro economia, ricercatori.
I disoccupati, i nuovi poveri, gli impiegati del pubblico, hanno bisogno di speranza e rassicurazioni.
Non nascondiamo ai nostri elettori che le riforme paventate avranno anche effetti negativi: la parola “merito” significherà per qualcuno “punizione”. Taglio della spesa pubblica significherà prepensionamenti, trasferimenti di personale, maggiore produttività (e calo dell’occupazione).
Per uscire dalla spirale del debito pubblico l’unica strategia sensata è quella della crescita. Ci sono diverse ricette per ottenerla, e dobbiamo capire se ci interessano i numeri (le percentuali di PIL) o le persone. Perché in anni recenti abbiamo visto tanti episodi di crescita gonfiata (basata su semplici speculazioni edilizie o finanziarie) e il castello di carta è poi rovinosamente crollato (Stati Uniti, Spagna, Irlanda, Islanda, Grecia).
La crescita è opportunità di benessere per tutti, e lo è tanto più le strategie sono condivise: un parco eolico è crescita o disastro paesaggistico? La TAV è opportunità di trasporti più rapidi o una spesa eccessiva? La politica deve saper dare delle risposte, senza tentare scorciatoie autoritarie.
La grave crisi economica non si è ancora trasformata in un ripensamento delle condizioni e delle cause che l’hanno originata. Questo perché mediaticamente la crisi dei debiti sovrani occupa i media di continuo, il dio spread è argomento di conversazione quotidiana. Gli oppositori al capitalismo sono disordinati e, ahimè, sovente ignoranti; infine sbagliano, a mio avviso, nel voler criticare un intero sistema, o nel proporre iniziative completamente fuori bersaglio come “cancellare il debito” (l’Italia ha bisogno di capitali esteri: perdere la fiducia, e l’accesso al credito, chiuderebbe a riccio la nostra economia).
Non credo che sia il capitalismo in sé il problema, ma la deriva che ha preso: un cattivo uso della globalizzazione e un peso eccessivo della finanza creano disuguaglianza e crisi cicliche.
I correttivi sono a nostra disposizione già oggi e, in parte, appoggiano su uno dei vanti principali dell’Europa: il welfare.
Le evidenze parlano chiaro: il libero mercato produce un maggiore sviluppo, se correttamente regolato, e, in un paese di microimprese, non ha più molto senso la dicotomia sfruttati-sfruttatori.
Il ruolo dell’imprenditore è centrale per creare nuova ricchezza e posti di lavoro, perché non tutti possiamo (o vogliamo) ambire a dirigere altri lavoratori. I suoi soprusi, anche ambientali, si combattono con le leggi e la cultura.
Allo stesso tempo, invito i liberali a valutare correttamente l’importanza di una società organica, felice e collaborativa.
Alcuni esempi serviranno a chiarire la mia visione.
Partiamo dalla sanità. Il fatto che esistano strutture che garantiscono visite gratuite è una garanzia per tutti, poveri e benestanti. Chiunque si può ammalare di HIV o di altre malattie contagiose, indipendentemente dal portafogli. Se a tutti è possibile una visita gratuita da parte di personale competente, cala la diffusione di patologie pericolose.
La povertà di intere sacche del sud offre la bassa manovalanza per la criminalità organizzata che poi taglieggia e minaccia gli imprenditori di tutta Italia: la povertà non è solo un problema per chi la vive, evidentemente.
La presenza di immigrati è una ricchezza in termini di cultura, lingue, tradizioni, cibi, di cui può approfittare anche la persona agiata. Stesso discorso per la presenza di giovani formati: è una ricchezza per le nostre aziende e per le nostre istituzioni (da cui dipendono direttamente i nostri servizi).
Una società in cui alberga fiducia reciproca spende meno in sistemi di autodifesa (contro le frodi, contro furti e rapine) e collabora più facilmente (per creare nuove imprese, nuovi progetti). Una società retta da fiducia sa affrontare le sfide del futuro, senza paura.
Se proiettiamo alla società quanto accade in ambiti più ristretti, vediamo che, negli ambienti di lavoro affollati, se i colleghi sono simpatici e allegri, è più facile relazionarsi, la produttività è più alta e si sopporta meglio lo stress.
Le malattie da società avanzata, ansia e depressione, ci costano ogni anno milioni di euro in farmaci e bassa produttività (si parla di 8 milioni di depressi in Italia). La politica deve tornare a pensare alla felicità delle persone, senza pretendere di indirizzarla, ma tentando di favorirla: investendo in cultura, crescita personale, salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, cura dei più deboli (anziani, disabili, giovani disoccupati). E’ un investimento a lungo termine, e richiede una politica di lungo termine: il contrario della Seconda Repubblica, fondata sui sondaggi.
D’altronde la Seconda Repubblica è stata una delle più grandi opportunità mancate della recente storia: finalmente liberata dalla lotta ideologica, la politica avrebbe potuto dedicarsi ai cittadini, cercando di risolvere problemi concreti, migliorando la competitività internazionale del paese.
Questa opportunità si apre per la Terza Repubblica, se riusciamo a sostituire la classe dirigente. È una precondizione essenziale per ripartire: l’Italia ha bisogno di un nuovo patto sociale. Questo si fonda sulla fine delle lotte tra imprenditori e operai, tra giovani e vecchi, tra Nord e Sud, tra province e comuni, tra Stato e regioni.
Lotte che servono certamente per conquistare una propria fetta di potere ma che hanno paralizzato il paese. Lotte che si sono nutrite di rancori, di invidie, di paure, che hanno alimentato una visione della democrazia perversa, per cui i diritti sono di chi urla più forte.
In tanti hanno cavalcato la rabbia popolare, e tanti la cavalcheranno. Ma si rispetta davvero l’elettorato se si sa rinunciare a seguirlo nei suoi istinti più bassi. Anche saper dire di no alle richieste dei propri elettori rientra in questa visione di politica responsabile; di fronte a certi populismi è addirittura necessario. Insistere solamente sui costi della politica, sui mandati dei rappresentanti, porta a mancare l’obiettivo. La politica riflette una società che troppo a lungo si è disinteressata del bene comune, seguendo la crescita di benessere o abituandosi a esso.
Fare politica non significa ubbidire passivamente ai propri elettori. Significa condividere con loro un progetto in cui è fondamentale esprimere le proprie opinioni, significa inoltre poter sperimentare e innovare, senza diktat e pregiudizi. I fenomeni sono troppo complessi per essere prevedibili, e la sperimentazione controllata è l’unico strumento a nostra disposizione per riformare la società. D’altronde, e faccio un esempio volutamente provocatorio, esperimenti di sostituzione del welfare pubblico da parte di privati sono già in atto, attraverso l’impegno di attori del terzo settore, capaci di gestire risorse scarse e offrire servizi di qualità (penso all’assistenza ai disabili, ai malati terminali, alle case famiglia, al dopo scuola e all’italiano per stranieri).
Quello che dobbiamo mettere in piedi non è un progetto che si prepara in pochi mesi. Dobbiamo avere l’onestà di dire ai nostri elettori che non abbiamo soluzioni immediate, quasi magiche, ma che se votano per noi, porteremo avanti un cambiamento di lungo termine, avendo chiaro in che direzione vogliamo andare: crescita, equità, bene comune.

giovedì 13 settembre 2012

Riforma elettorale. Preferenze o voto singolo trasferibile?


Negli ultimi mesi si parla sempre più della riforma elettorale. Era facile aspettarselo, con l'avvicinarsi delle elezioni, ed era altrettanto facile aspettarsi anche la superficialità con cui se ne sta parlando. Noi Giovani proviamo a ragionarci più in profondità con questo articolo di Danilo Raponi (apparso in precedenza su iMille).

L’inerzia del Parlamento italiano ha ormai raggiunto livelli di cronicità tali da richiedere l’intervento del Presidente della Repubblica su un tema di ormai impellente necessità di risoluzione: la riforma elettorale per le elezioni della Camera e del Senato. Con un messaggio inviato congiuntamente ai due rami del Parlamento il 9 luglio 2012, il Capo dello Stato ha ricordato che è “opportuna” e “non più rinviabile” la presentazione in Parlamento di una o più proposte di nuova legge elettorale “anche rimettendo a quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva e rimanessero quindi aperti a un confronto conclusivo”. L’impazienza di Giorgio Napolitano è comprensibile e condivisibile, perché è ormai dallo scorso gennaio che si parla di riforma della legge elettorale e che i partiti sembrano discutere su varie proposte le quali, però, non vedono mai la luce al di fuori dei corridoi di Montecitorio.
Appare ormai sempre più chiaro che questa inerzia è dettata da istinto di conservazione, o meglio, dal bieco timore dell’80% degli attuali parlamentari di non essere riconfermati nel prossimo Parlamento qualora venisse approvata una legge elettorale che garantisca davvero una selezione basata sul merito e una chiara e trasparente scelta dei propri rappresentanti da parte dei cittadini. Come già sottolineato da Cristiana Alicata nell’articolo pubblicato su iMille il 13 luglio 2012, la reintroduzione delle preferenze è da osteggiarsi perché comporterebbe un intollerabile ritorno al passato e la cancellazione di tante faticose, e ancora parziali, conquiste della democrazia italiana, in primis l’introduzione delle primarie per la scelta dei candidati (ancora adesso diffuse soltanto nel Partito Democratico). Ma c’è di peggio.
Sebbene un sistema elettorale proporzionale con preferenze possa sembrare l’apogeo della scelta elettorale democratica, non è affatto così. È invece il sistema preferito del populismo, della demagogia, della plutocrazia, cosa ben diversa dalla democrazia. È il sistema che si prefigge di premiare la popolarità e la celebrità del candidato, non i suoi meriti e le sue conoscenze. È per chi si vorrà vantare di aver ricevuto più delle 800.000 preferenze degli Andreotti e De Mita dei loro “tempi d’oro”. Volendo pensar male, la preferenza favorisce inoltre il voto di scambio: tra una rosa di candidati, l’elettore può scegliere quello che gli promette di restituirgli il favore fatto. Non facciamo finta di non sapere che scambi di vario genere, più o meno leciti ma in ogni caso aberranti per lo spirito pubblico che dovrebbe governare ogni democrazia, erano all’ordine del giorno della Prima Repubblica. Vogliamo forse tornare ai bei tempi andati? Non credo.
Anche tralasciando l’aspetto di “incentivo all’illegalità” che, a mio avviso, le preferenze rappresentano, torno a ripetere che quest’ultime sono dannose per lo sviluppo e la maturazione della coscienza democratica dei cittadini. Facilitando difatti una scelta istintiva di candidati celebri, i famigerati V.I.P., si corre il rischio di ritrovarsi con il Parlamento pieno di celebrità televisive, calciatori e i soliti datati politici che pur avendo avuto l’opportunità di cambiare l’Italia per il meglio non l’hanno fatto, preferendo invece occupare il tempo a loro disposizione per consolidare la presa elettorale sul loro collegio o circoscrizione elettorale.
In questo modo si riduce drasticamente il ricambio degli eletti e si continua a tenere fuori dal Parlamento i grandi esclusi della politica italiana: i giovani, le donne e le minoranze. Chi vuoi che vada a votare per una giovane trentenne-quarantenne, che magari di nome fa Maria Abu Qulrah, quando invece può semplicemente votare per Pierluigi Bersani o Silvio Berlusconi? Già solo il dover scrivere Abu Qulrah sulla scheda elettorale provocherebbe errori di spelling a dismisura, che darebbe adito a contestazioni, annullamenti di schede, discussioni infinite tra scrutatori inflessibili e scrutatori tolleranti, rappresentanti di lista e presidenti di seggio. Pensare poi alle farsesche risse che ne deriverebbero farebbe desistere una ipotetica Abu Qulrah dal candidarsi. (Una precisazione: non si vuol in alcun modo sostenere che una qualsiasi Abu Qulrah, che tra l’altro è un nome di fantasia, sia più meritevole di essere votata rispetto a Bersani o Berlusconi soltanto perché appartenente ad una minoranza, magari di pelle scura e di religione non cristiana; bensì ipotizzo un’immigrata nata in Italia, quindi italiana, che si è distinta per eccellenza negli studi e nella vita professionale, che abbia un alto senso di dovere civico e che voglia partecipare alla vita politica del suo paese, certamente anche per la protezione dei diritti civili delle minoranze, ma soprattutto per il bene comune).
Questo discorso è valido però anche per un giovane che di nome fa semplicemente Mario Rossi, e che abbia le competenze, l’impegno e passione civile di cui sopra: tra una lunga lista di candidati tra cui scegliere non verrebbe eletto, a favore invece della Belen di turno. Anche un Pietro Ichino si troverebbe a rischiare di restar fuori dal Parlamento, a dispetto di un Calderoli che invece non correrebbe alcun rischio. Già sento levarsi le accuse di elitismo, sfiducia negli elettori, antidemocraticità, ecc. Niente di tutto questo. Non sto insinuando che gli elettori italiani siano tutti “asini” che votano irrazionalmente o, peggio, che siano tutti corrotti che votano per tornaconto personale. Ce ne sono anche di questi, ma sono certo che costituiscono una minoranza. È però fisiologico che l’elettore medio, lasciato libero di scegliere chiunque tra una lunghissima lista di candidati, si soffermi sul nome più familiare, sul personaggio più visto in televisione, sulla faccia più ripresa sui quotidiani. Non si ferma a riflettere su quale sia effettivamente il candidato migliore; anche se animato da buone intenzioni, vota istintivamente. Se guidato da cattive intenzioni, poi, la preferenza gli permette di votare chi gli ha promesso favori, a discapito di qualsiasi considerazione di politica come amministrazione del bene pubblico.
Quale soluzione, allora? I collegi uninominali, con primarie obbligatorie, costituirebbero un’egregia soluzione. Constatando però che ci sono forti resistenze in questo senso da una certa parte politica, andiamo a proporre un’alternativa ancora non discussa in Parlamento: il voto singolo trasferibile (VST). La prima caratteristica di questo sistema elettorale, usato per l’elezione del Senato australiano e della Camera irlandese, tra gli altri, è che non è né maggioritario né proporzionale. Integra invece al suo interno caratteristiche tipiche di entrambi i sistemi: garantisce una sostanziale equità degli esiti elettorali, come richiesto dalle formule proporzionali; e mantiene un forte legame individuale tra i candidati e le proprie circoscrizioni elettorali, tipico dei sistemi maggioritari. In questo modo, il sistema del voto singolo trasferibile riesce a perseguire lo scopo di combinare un’equa rappresentanza di tutte le diverse componenti della società, evitando contemporaneamente di aumentare il potere dei partiti e delle fazioni.
È in realtà scorretto parlare di “voto singolo trasferibile” come se fosse un sistema elettorale immediatamente tipizzabile in una categoria. Difatti, sistemi che si basano sul voto singolo trasferibile possono differire tra di loro per il modo in cui trasformano i voti in seggi, ma anche per caratteristiche quali l’ampiezza delle circoscrizioni e la struttura delle schede elettorali. Tuttavia, esistono molti elementi simili che ci permettono di trattare, per comodità e chiarezza, il voto singolo trasferibile come se fosse un sistema elettorale unico, sempre identico. Innanzitutto, il VST prevede sempre l’esistenza di collegi plurinominali, la cui ampiezza può variare a seconda della popolazione ivi rappresentata. Ogni elettore ha a disposizione un solo voto, da utilizzare ordinando i candidati sulla scheda elettorale secondo le proprie preferenze, dal primo all’ultimo. Si può prevedere che il voto sia valido soltanto quando l’elettore esprima il proprio ordine di preferenza per tutti i candidati presenti sulla lista (sistema da preferirsi), oppure anche quando l’elettore esprima solo la prima preferenza. Ad esempio, se in un collegio ci sono 10 candidati, l’elettore vota non più con una crocetta affianco al nome del prescelto, bensì numerando tutti i candidati in ordine di preferenza, da 1 a 10.
Sono immediatamente eletti tutti i candidati che superano una quota minima di voti, detta Droop Quota, in prima preferenza. La droop quota è ottenuta dividendo il numero di voti validi per il numero di seggi della circoscrizione, aumentato di un’unità; al quoziente di questo rapporto si aggiunge poi un’altra unità, e si arrotonda il risultato per difetto.[1]

Questa quota, naturalmente, rappresenta il quoziente minimo di voti da non poter essere ottenuto da un numero di candidati superiore al numero di seggi disponibili. Se nessun candidato raggiunge la quota in prima battuta, il candidato con meno voti in prima preferenza viene escluso dalla competizione, e le sue schede vengono trasferite (ecco dunque il significato di voto singolo trasferibile) agli altri candidati, in base alle seconde preferenze espresse nelle schede. In questo modo, i voti degli elettori del candidato escluso serviranno ad eleggere altri candidati espressi come seconda scelta. Questo procedimento di eliminazione e trasferimento procede fin quando uno o più candidati raggiungano o superino la soglia (droop quota) per l’elezione, fino al raggiungimento del totale dei seggi a disposizione.[2]
Come qualsiasi sistema elettorale, il VST non è perfetto e deve essere accompagnato da una legge che ne precisi il funzionamento, soprattutto in merito al trasferimento delle preferenze successive alla prima, momento in cui entra in gioco un forte elemento probabilistico che va mitigato attraverso la considerazione di frazioni di tutti i voti successivi al primo, come succede nell’elezione del Senato australiano. Bisogna inoltre essere molto attenti alla definizione dei collegi e del numero di seggi a disposizione in ciascun collegio. Altrimenti, lasciato a se stesso, il VST è un sistema che in alcuni casi estremizza il formarsi di solide maggioranze, in favore della governabilità ma a scapito di un’equa rappresentanza. Questa fu una delle principali obiezioni sollevate da chi si oppose al referendum del 5 maggio 2011 che chiese agli elettori del Regno Unito qualora preferissero adottare una variante del VST, l’alternative vote, al posto dell’attuale sistema first-past-the-post, che è fortemente maggioritario (in sintesi, con il first-past-the-post si formano collegi uninominali, a turno unico, nei quali viene eletto il candidato che ottiene più voti, senza alcuna soglia minima).[3]
Un VST ben strutturato, tuttavia, consente di combinare la rappresentanza proporzionale con la scelta dei candidati da parte dell’elettore, piuttosto che dei partiti, soprattutto se le elezioni sono precedute da primarie obbligatorie. Che differenza c’è, ci si potrebbe chiedere, con un sistema proporzionale a lista aperta (vale a dire, con preferenze)? Ebbene, c’è una differenza sostanziale. Innanzitutto, con le primarie i cittadini maggiormente impegnati nella vita civica del loro paese ed interessati ad una corretta ed efficiente gestione della cosa pubblica (in altre parole, la maggioranza dei cittadini che votano alle primarie), andranno a scegliere i candidati migliori su base di meriti e competenze, piuttosto che di altri più discutibili fattori (sebbene ci saranno sempre eccezioni). Inoltre, al momento delle elezioni vere e proprie, mentre i sistemi proporzionali con preferenze spingono gli elettori a scegliere un candidato tra la lunga lista del partito che si intende votare (lista che, tra l’altro, è formata dal partito, senza primarie), invece con il sistema del voto singolo trasferibile, gli elettori tendono a formare il loro ordine di preferenza dei candidati non tanto a seconda del partito che rappresentano, bensì tendono a scegliere i candidati stessi a prescindere dai partiti.[4]
Per concludere, non esiste un sistema elettorale che combini perfettamente l’esigenza di governabilità con quella della rappresentanza. Tuttavia, esistono sistemi elettorali cattivi, fatti male e con malizia, per la preservazione dello status quo, come ad esempio il cosiddetto “Porcellum”. Un ritorno al proporzionale con liste aperte sarebbe ugualmente biasimevole, i soliti noti tornerebbero in Parlamento, con un ricambio minimo (con l’eccezione, forse, di qualche “grillino”).
Gran parte dei mali della politica italiana degli ultimi 20 anni derivano dalla mediocrità, incompetenza e disattenzione per la cosa pubblica di chi ci rappresenta in Parlamento. C’è bisogno di un cambio di rotta. Oltre alla governabilità e rappresentanza, dunque, il nuovo sistema elettorale per la Camera e il Senato dovrà garantire la possibilità di selezionare una nuova classe dirigente, che si distingua nettamente da quella attuale per capacità, cultura, e dedizione alla buona e diligente amministrazione del bene pubblico.
Che non si torni al proporzionale con preferenze, dunque. Ma che non si resti con il “Porcellum”, neppure. Non ho però grandi speranze in  merito all’adozione del singolo voto trasferibile: il fatto che in Italia se ne sia sempre parlato in ambiti accademici ma mai in Parlamento è sintomatico dell’opposizione dei nostri politici anche solo a considerarne la scelta. Diranno probabilmente che si tratta di un sistema troppo difficile per gli elettori e che genererebbe troppi voti nulli. Temo che siano loro, invece, a non riuscire a comprenderne il funzionamento o perlomeno a non riuscire a farlo rientrare nei loro turpi calcoli di utilità per il partito. A questo punto, allora, non mi resta che lanciare una provocazione: perché non adottare il sistema di voto Random Sample inventato da David Chaum? Si andrebbe a selezionare casualmente, a sorteggio, un piccolo gruppo di cittadini, che saranno gli unici chiamati a votare in una determinata tornata elettorale. Questo gruppo di cittadini/elettori dovrà essere grande abbastanza da essere rappresentativo, e piccolo abbastanza da garantire che ogni voto conti molto, responsabilizzando dunque gli elettori e spingendoli a scegliere i candidati ritenuti davvero più adatti a rappresentarli.[5] Ripeto, è una provocazione, ma a confronto con il “Porcellum” senza primarie, è una provocazione da prendersi sul serio.


[1] S. Finamore, ‘Tra rappresentanza e governabilità: Il Voto Singolo Trasferibile nell’esperienza di Irlanda e Malta’, p. 5, in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0077_finamore.pdf, ultimo accesso 15 luglio 2012.
[2] Ibid., p. 6.
[4] R.S. Katz, ‘The Single Transferable Vote and Proportional Representation”, in A. Lijphart e B. Grofman (ed.),Choosing an Electoral System: issues and alternatives. Praeger, 1984, p. 145.
[5] D. Chaum, ‘Random Sample election. Far lower cost, better quality and more democratic’, in http://rs-elections.com/Random-Sample%20Elections.pdf, ultimo accesso 15 luglio 2012.

giovedì 6 settembre 2012

I sindacati, “la” Fornero e il gioco dell’oca


di Ciro Cafiero*

E' trascorso appena un anno da quando il legislatore, con l’articolo 8 del d.l. 138 del 13 agosto del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011, ha affidato ai sindacati la responsabilità di risollevare le sorti di un mercato del lavoro caduto in una crisi profonda e capace di generare serie preoccupazioni anche tra gli altri Paesi membri dell’UE.
L’articolo 8, come emerge dalla cronaca del tempo, è stato salutato con grande entusiasmo dalle forze politiche tanto che, a fine ottobre del 2011, l’allora premier italiano, Silvio Berlusconi, con una lettera dai toni rassicuranti, annunciava all’UE significativi cambiamenti in atto del mercato del lavoro italiano.
Gli entusiasmi a ben guardare non erano ingiustificati. E infatti, nell’ottica di aumentare la produttività delle imprese e con essa l’occupazione, l’articolo 8 consente ai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale o territoriale o anche alle loro rappresentanze aziendali di sottoscrivere contratti di secondo livello applicabili a tutti i lavoratori dell’impresa, iscritti o meno ai sindacati stipulanti, ponendo cosi fine alla lunga querelle circa l’efficacia soggettiva di detti accordi. 
Ma soprattutto, consente a questi accordi di intervenire, derogando anche in peius alla legge e alla contrattazione collettiva nazionale, nella gran parte delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e la produzione (come le mansioni del lavoratore, i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, o ancora i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro, le modalità di assunzione e la disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, oppure infine la trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e persino le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro). 
Se le cose fossero andate secondo i piani, le parti sociali avrebbero avuto l’opportunità di ridisegnare il mercato del lavoro ma soprattutto di farlo a partire dal livello più basso di contrattazione, come da molti da tempo auspicato.
E invece, salvo rare occasioni, quell’articolo 8 è rimasto sino a oggi inattuato o per meglio dire lettera morta. Ciò è verosimilmente avvenuto per due ragioni.
Anzitutto, probabilmente perché i sindacati, preoccupati dall’intrusione dell’esecutivo nella sfera dell’autonomia collettiva, hanno preferito non dar corso alle modifiche apportate con un colpo di mano dal governo al sistema di relazioni industriali.
Non a caso, nel settembre 2011 hanno apposto all’accordo interconfederale sottoscritto alla fine di giugno una clausola con cui hanno concordato che “le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate (solamente, n.d.r.) all'autonoma determinazione delle parti”. 
Ma, altrettanto probabilmente, perché gli stessi sindacati hanno preferito non assumersi la grande responsabilità di essere gli attori del cambiamento in chiave di crescita del mercato del lavoro.
In questo contesto si iscrive il recente intervento del legislatore che, preso atto della defezione del sindacato, sulla scorta di un disegno di legge e in un convulso giro di passaggi parlamentari, ha ridisegnato la disciplina delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e la produzione, già oggetto del famoso articolo 8. 
Ne è venuta fuori la legge n. 92 del 2012 (come modificata dalla legge n. 134 del 2012 di conversione del d.l. n. 83 del 2012), rubricata Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, che tutti conoscono più semplicemente come riforma Fornero. 
Coerentemente con le premesse da cui prende le mosse, la riforma sembra non nascondere il sentimento di sfiducia verso l’azione del sindacato e affidare, per converso, ai giudici il ruolo di primi attori del cambiamento.
In altre parole, la riforma, per un verso, concede al sindacato spazi più limitati rispetto a quelli di cui ha goduto durante la scorsa legislatura, per altro verso, investe i giudici di un’elevata discrezionalità nella scelta delle questioni inerenti la tipologia del rapporto di lavoro venuto in essere tra le parti come in quelle relative alle cause che hanno dato origine all’eventuale epilogo di esso.
In questo senso, basti considerare che al giudice spetterà valutare se il livello di formazione teorica o pratica del lavoratore sia tale da escludere la presunzione di coordinamento e continuità relativa a prestazioni rese da titolari di partita IVA al ricorrere di determinate condizioni; o ancora valutare, in assenza dell’intervento della contrattazione collettiva, quali siano le attività meramente ripetitive o esecutive che non possono integrare quel progetto che è condizione di legittimità della collaborazione coordinata e continuativa; o infine, valutare quali siano le prestazioni di elevata professionalità che non fanno scattare la presunzione di subordinazione di un rapporto di lavoro a progetto.
Sempre i giudici saranno poi chiamati a declinare la categoria delle “manifesta insussistenza” in relazione al fatto posto a base di un licenziamento per motivo economico e ad applicare quindi la tutela reintegratoria o quella risarcitoria a seconda che tale fatto sia o meno manifestamente insussistente.
La strada del cambiamento, tuttavia, è fitta di insidie: nulla esclude dunque che la riforma possa cadere in un’imboscata. Potrebbe accadere, infatti, che i sindacati, determinati a giocare di nuovo un ruolo di primo piano sulla scena e, in questo senso, a promuovere l’aumento di produttività delle imprese come la salvaguardia dell’occupazione, ricorrano a quel famoso articolo 8, derogando (legittimamente) alla nuova riforma del lavoro con il risultato di vanificarne gli effetti!
Ciò che del resto, alla fine dello scorso agosto, è già accaduto alla Golden Lady dove i sindacati (legittimati), nell’ottica di garantire una maggiore occupazione a livello nazionale evitando nel contempo una crisi occupazionale, hanno con un’intesa aziendale posticipato di 12 mesi la stringente disciplina sui contratti di associazione in partecipazione prevista dalla riforma Fornero.
Ora, se tale intesa rappresenta tecnicamente una deroga in peius alla disciplina legislativa posto che rinvia di un anno l’azione di contrasto all’abuso del contratto dell’associazione in partecipazione predisposta dal legislatore a tutela dei lavoratori, nella sostanza ha l’effetto di salvaguardare l’occupazione degli associati in partecipazione presso l’azienda.
Diversamente, infatti, la Golden Lady sarebbe stata costretta a convertire in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato tutti i contratti di associazione in partecipazione stipulati in assenza dei requisiti introdotti dalla legge Fornero, con conseguente (serio) rischio di crisi aziendale.
Sicuramente il legislatore della riforma ha tenuto in conto che l’articolo 8 vaga come una mina pronta a esplodere, tant’è che, con riferimento alla disciplina del contratto del termine senza causale, ha per esempio previsto che essa possa essere derogata a livello interconfederale o di categoria e solamente in via delegata a livello decentrato, stabilendo così una gerarchia tra le fonti; ma altrettanto sicuramente, non potrebbe far molto se l’articolo 8 “esplodesse” davvero atteso che non vi sarebbero, almeno al momento, le condizioni politiche per modificarlo.
In definitiva, non resta che sperare che le parti sociali maneggino l’articolo 8 con cura soprattutto ora che il Paese è soffocato da una disoccupazione al 10,5%, che tra i giovani ha un picco a un tasso record del 33,9%, e di fronte a 150 tavoli di crisi aziendale aperti al Ministero dello Sviluppo Economico per circa 180.000 lavoratori coinvolti e oltre 30.000 esuberi.


*Assistente in Diritto del lavoro presso la Luiss Guido Carli di Roma

martedì 4 settembre 2012

Scriviamo insieme il programma di Noi Giovani

Noi Giovani avvia ufficialmente il lavoro sui tavoli per il programma: aiutaci a elaborare sette proposte per rendere l'Italia un Paese per giovani!
Ogni tavolo è aperto alla collaborazione di tutti, per partecipare è sufficiente scrivere ad associazione@noi-giovani.it o a programma@noi-giovani.it e iscriversi al nostro gruppo fb, ti ricontatteremo al più presto!

Ecco i tavoli:
1. nuovo patto intergenerazionale: fisco, welfare e debito pubblico;
2. lavoro;
3. istruzione e cultura;
4. imprese e accesso al credito;
5. diritti, doveri, libertà individuali e pari opportunità;
6. ambiente ed energia;
7. innovazione e società della trasparenza.

Abbiamo bisogno di persone e idee valide per riportare i giovani a essere gli artefici delle scelte di governo e per tornare padroni del nostro futuro!