sabato 22 dicembre 2012

domenica 4 novembre 2012

Choosy or not choosy?


di Danilo Raponi

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La Fornero invita i giovani a non essere choosy. Infuria il dibattito. Importanti economisti americani consigliano invece di essere choosy. Noi proviamo a ragionarci su.
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Il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Elsa Fornero, a margine di un convegno di Assolombarda del 22 ottobre 2012, invita i giovani a non essere troppo “schizzinosi” nella ricerca del primo posto di lavoro: “Non bisogna mai essere toppo choosy – dice – meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale”. Nel peggiore stile italico, si scatena un putiferio tra veementi detrattori e impetuosi sostenitori delle parole della Fornero. Quest’articolo, invece, vuole costituire una serena riflessione sull’opportunità o meno di “essere choosy”, prendendo spunto da recenti studi di economisti americani sull’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Un’avvertenza importante in un paese in cui tutti, prima o poi, si spacciano per economisti: chi scrive non è un economista, ma quest’articolo passerà in rassegna idee diverse e concorrenti di alcuni economisti americani che ci saranno di ausilio per giungere a conclusioni di carattere politico.
            
           Prima di addentrarci nel vivo dell’articolo, c’è però bisogno di un chiarimento: cosa significa choosy? Choosy è una parola inglese molto informale e poco felice, che non andrebbe tanto tradotta con “schizzinoso”, come fatto dalla maggior parte dei giornalisti italiani, quanto piuttosto con “esigente”. Orbene, la dialettica choosy or not choosy applicata al mercato del lavoro è solo un vaniloquio da bar, oppure c’è qualcosa di più? C’è molto di più, come andremo a scoprire. Al riguardo ci sono, difatti, due campi contrapposti di studi empirici e teorie economiche.

Raj Chetty, segnalato dall’Economist nel 2008 come uno degli otto economisti più promettenti al mondo, è una persona molto choosy. Nel 2008, a soli 29 anni, si dimise da una cattedra di economia all’Università della California, Berkeley, per poi invece accettare un posizione da professore ordinario a Harvard. Più choosy di così non si può. In uno straordinario esempio di coerenza intellettuale, mise pienamente in pratica la sua teoria sul mercato del lavoro. Chetty è difatti un convinto sostenitore dell’opportunità di espandere i sussidi alla disoccupazione, perché così facendo si dà più tempo a chi cerca lavoro di trovarne uno consono ai suoi obiettivi, interessi, e competenze. Com’è arrivato a queste conclusioni?

Ha ritenuto superfluo costruire complicati modelli econometrici per i quali avrebbe dovuto specificare quale sia il valore di un euro per una persona senza lavoro a confronto di una pienamente occupata. Avrebbe inoltre dovuto quantificare, con grandi difficoltà, l’onere, il fardello richiesto dall’attività di ricerca di un lavoro.  Niente di tutto ciò. Chetty ha semplicemente osservato quanto tempo si impiega a trovare lavoro. Non sorprende che chi gode di sussidi di disoccupazione più generosi adoperi più tempo. Tale comportamento è solitamente attribuito al fenomeno noto come “azzardo morale”: chi è assicurato contro un rischio, in questo caso la disoccupazione, se ne preoccupa di meno di chi non è assicurato. Ma Chetty dimostra che in realtà ciò spiega soltanto una parte di questo ritardo temporale. Il resto è spiegato invece da ciò che lui definisce “liquidity effect”: i disoccupati solitamente hanno a disposizione poca liquidità, contanti o altri beni facilmente fruibili, e altrettanto poche chance di ottenere un prestito in banca. Dunque si affrettano il più possibile a trovare lavoro e spesso scelgono il primo che viene loro offerto, senza un minimo di deliberazione sull’opportunità della scelta e le sue possibile conseguenze. Se avessero potuto, invece, accedere più facilmente a forme di credito, oppure se avessero disposto di maggior liquidità, avrebbero potuto riflettere maggiormente sulla loro scelta professionale.

Questa maggiore deliberazione, dunque questa presa di tempo, è per Chetty un fattore molto positivo. Permette a chiunque cerchi lavoro di pensare in maggior misura a cosa vorrebbe fare, cosa si sente portato a fare bene, come potrebbe meglio contribuire ad una mansione piuttosto che un’altra. Le conseguenze di tale comportamento, cioè dell’essere choosy, secondo Chetty sono soltanto positive. Chi sceglie un lavoro consono alle proprie esigenze e gusti sarà più produttivo e più industrioso, a vantaggio dunque di tutta la comunità, che verrebbe ampiamente ripagata dei costi sostenuti per i sussidi alla disoccupazione. Chetty calcola che, negli Stati Uniti, anche solo con un aumento di 1 dollaro a settimana per sussidio di disoccupazione si produrrebbero effetti positivi per l’economia come se il PIL aumentasse di 290 milioni di dollari. Gli studi di Chetty dimostrano, dunque, che i benefici dei sussidi alla disoccupazione sono di gran lunga maggiori dei costi derivanti dal disincentivo che offrono alla ricerca di un lavoro in tempi brevi. Inoltre, i benefici dei sussidi sono perfino maggiori in questa face di recessione, a causa delle difficoltà di accesso al mercato del lavoro e delle difficoltà di accesso al credito che precludono ancora di più i disoccupati dall’ottenere liquidità. In base a tutto ciò, Chetty è dunque un convinto sostenitore di politiche del lavoro che introducano e fortifichino i sussidi alla disoccupazione, o, per ricollegarci al dibattito Fornero, è un proponente della “choosy economics”.

Naturalmente, non tutto il mondo accademico, e ancora meno quello politico, è d’accordo con le conclusioni di Raj Chetty. Gli stessi studi di Chetty, in realtà, erano stati inizialmente formulati come risposta ad una serie di articoli degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso in cui alcuni economisti, tra tutti Lawrence Katz (Harvard) e Bruce Meyer (Chicago), sostenevano che i sussidi alla disoccupazione producono effetti negativi in quanto diminuiscono la necessità di trovare lavoro rapidamente e accrescono l’improduttività dei disoccupati. In una recente audizione alla Camera dei Rappresentanti, però, lo stesso Katz ha ammesso di aver imperniato i suoi studi su assunti parzialmente errati e di aver scoperto col tempo che, invece, chi negli anni ’80 beneficiava maggiormente dei sussidi di disoccupazione erano alcune aziende che attuavano la nefasta pratica dei licenziamenti temporanei. Queste aziende, difatti, licenziavano numeri cospicui di lavoratori per un certo periodo, ben sapendo che i neo-disoccupati avrebbero usufruito di sussidi alla disoccupazione, per poi riassumerli appena prima della scadenza di tali sussidi, sfruttando così alcuni mesi di ridotti costi del lavoro. Siccome l’inumanità e l’immoralità di tali pratiche le ha rese oggigiorno molto meno comuni, questo aspetto negativo dei sussidi è venuto a mancare, in quanto i lavoratori licenziati non possono più sperare di essere assunti di nuovo dalla stessa azienda, e dunque cercano altri lavori più operosamente. Altri economisti, come David Card (Berkeley), che ha lavorato con Chetty, e Till von Wachter (California, Los Angeles), che ha eretto la sua analisi su eccellenti statistiche tedesche, riconoscono che i benefici dell’essere choosy sono più degli svantaggi che questo comporta.

Insomma, il mondo accademico americano sembra quasi univoco nel celebrare le lodi dei sussidi alla disoccupazione. Una voce fuori dal coro è quella di Robert Barro, un altro professore di economia a Harvard, il quale sostiene che l’estensione dei sussidi è quasi sicuramente il principale colpevole dell’alto livello di disoccupazione di cui gli Stati Uniti soffrono. Barro ha stimato, ma molto approssimativamente, che la disoccupazione sarebbe di circa due punti percentuali più bassa di quella che è adesso se non ci fosse più alcun sussidio di disoccupazione. Tranne Barro, tuttavia, il quale inoltre ha ammesso di non aver condotto studi sistematici e accurati come quelli di Chetty, la no-choosy economics sembra essere piuttosto uno dei cavalli di battaglia di una certa parte politica. Si tratta del Partito Repubblicano, che negli ultimi anni è stato fortemente condizionato dalle idee del movimento Tea Party, che molto spesso si colloca alla destra della politica conservatrice statunitense. Chi scrive non nasconde una certa perplessità per la riproposizione di politiche economiche fondate su minore imposizione fiscale, minori spese pubbliche (con l’eccezione per quelle militari) e minore regolamentazione del settore finanziario. Sono le politiche che hanno governato il mondo occidentale negli ultimi 20 anni, e hanno miseramente fallito. Si stenta a capire come, oggi, possano produrre frutti migliori di quelli maturati nella crisi del 2008.

A ciò è collegata una passione quasi viscerale dei repubblicani americani per la cancellazione di molti degli istituti migliori del welfare. Non solo l’abrogazione immediata della riforma sanitaria voluta da Obama, ma anche una forte diminuzione delle borse di studio federali per l’accesso alla formazione universitaria e l’eliminazione di certi benefici dei programmi sanitari Medicaid e Medicare, oltre alla riduzione del numero di insegnanti: sono questi alcuni dei punti del programma Romney/Ryan che raccolgono maggior consensi nella base repubblicana. I sussidi di disoccupazione, naturalmente, fanno parte del calderone del welfare tanto odiato dai repubblicani, e non c’è dubbio che rappresentanti e senatori di quella parte politica faranno di tutto per dimostrare i gravi svantaggi dei sussidi, ignorando a proposito gli studi di Chetty e dei suoi colleghi. Del resto, per i repubblicani, quasi tutti i professori universitari sono degli snob liberal, quindi perché starli a sentire? Viene voglia di dare ragione Paul Krugman, quando sostiene che i repubblicani di oggi soffrono di un grave “difetto di realtà”.

La conclusione di quest’articolo esulerà da considerazioni puramente economiche nell’affrontare il problema dello choosy or not choosy. Stiamo parlando pur sempre di esseri umani, per di più in gravi situazioni di indigenza e nello stato denigrante della disoccupazione. La scienza economica può fornirci utilissime chiavi di lettura di alcuni problemi sociali, ma non può spiegare tutto. E’ convinzione dell’autore che l’incitazione del ministro Fornero è sbagliata proprio perché prende in considerazione soltanto l’aspetto economico del lavoro. Ma il lavoro non è esclusivamente il mezzo di sostentamento dell’uomo. Lavoro è anche il modo in cui l’uomo si afferma in società, ne diviene parte, è ciò che conferisce dignità a uomini e donne che hanno scelto di dare il loro contributo al contratto sociale. Scelto, per l’appunto. Ogni persona è diversa, ha le sue aspirazioni, i suoi progetti e i suoi sogni. Ma al contempo ogni persona è uguale, perché tutti hanno aspirazioni, progetti e sogni. Compito di chi governa è dare a tutti l’opportunità di perseguirli.

Esortare a non essere choosy non è buona politica, non aiuta a rendere il mercato del lavoro italiano più flessibile e aperto ai giovani. E’ invece un rigurgito della peggiore politica italiana, quella degli ultimi 20 anni. Sappiamo che dal ministro Fornero possiamo aspettarci molto più che uno slogan avventato e irriflessivo. Una società veramente giusta dà a tutti i suoi membri la possibilità di esprimere al meglio i propri talenti. A questo fine, anche qualora fosse provato che i sussidi di disoccupazione siano anti-economici, che distruggano ricchezza invece di crearne, andrebbero in ogni caso promossi. Darebbero comunque ai disoccupati la possibilità di scegliere con cura e attenzione il proprio lavoro. Darebbero loro ciò che è più prezioso: tempo per pensare e riflettere su come si vuole contribuire al bene comune tramite il lavoro. E’ ciò che conta. Non tutto è economia, bellezza.


Bibliografia:
Barro R., ‘The Folly of Subsidizing Unemployment’, The Wall Street Journal, 30 August 2010
Caliendo M., Steffen K. E Uhlendorff A., ‘Marginal Employment, Unemployment Duration and Job Match Quality’, IZA Discussion Paper Series no. 6499, April 2012
Card D., Chetty R., e Weber A., The Spike at Benefit Exhaustion: Leaving the Unemployment System or Starting a New Job?, The American Economic Review, Vol. 97, No. 2 (May, 2007), pp. 113-118
Chetty R., Moral Hazard vs. Liquidity and Optimal Unemployment Insurance, Journal of Political Economy, Vol. 116, No. 2 (April 2008), pp. 173-234
Kgrueger A.B., and Mueller A., Job Search and Unemployment Insurance: New Evidence from Time Use Data, IZA Discussion Paper Series no. 3667, August 2008

Articolo precedentemente pubblicato su www.imille.org (01.11.2012). 

mercoledì 31 ottobre 2012

Terzo Settore, motore della crescita

di Maria Palandrani


La crisi economica e sociale ci impone di rivedere gli attuali modelli di sviluppo economico.

Noi Giovani crediamo che un nuovo sistema di welfare, guidato dal Terzo Settore e che tenga in considerazione anche l’aspetto qualitativo della crescita possa essere la base di un nuovo modello di sviluppo per il Paese.

Il Terzo Settore raggruppa i soggetti di natura privata, espressione della cosiddetta società civile, che agiscono per finalità di utilità sociale e producono beni e servizi destinati alla collettività. Rientrano in questa categoria, economica e sociologica, le associazioni riconosciute e non riconosciute, le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, le fondazioni, le cooperative e le imprese sociali.

Per questo motivo, proponendo uno sviluppo del terzo settore non facciamo riferimento al cosiddetto assistenzialismo statale né ai soggetti che operano per scopo di lucro nel mercato. Noi Giovani ci rivolgiamo a quella realtà distinta, vasta ed eterogenea, assai presente sul nostro territorio e che contribuisce attivamente allo sviluppo economico e sociale ispirandosi ai principi della sussidiarietà e della partecipazione democratica, per un cambiamento sociale che viene dal basso.

Parliamo dei servizi destinati alle categorie più deboli della società, che Noi Giovani crediamo debbano essere maggiormente sostenuti. Specie in questo periodo di crisi economica, in cui emergono problematiche sociali sempre più gravi e il Terzo Settore viene colpito severamente e indistintamente dai provvedimenti di austerità del governo che penalizzano amaramente un compartimento che per i giovani può rappresentare un autentico volano per la crescita, intesa non solo come crescita economica evidenziata dalle variazioni quantitative del prodotto interno lordo.

Il progresso di una società non può essere valutato solo in termini quantitativi ma va apprezzato in termini di benessere sociale.
E il welfare non è un costo superfluo, né una limitazione della crescita economica, ma una condizione indispensabile per lo sviluppo sostenibile del Paese.

Il sistema di welfare attuale va quindi riformato nel senso di prevedere l’intervento dei soggetti pubblici, e della loro spesso pesante, inefficiente e costosa struttura, soltanto in via sussidiaria rispetto a quello dei cittadini e delle organizzazioni riconducibili al Terzo Settore.

In altre parole, lo Stato, a livello centrale e locale, dovrebbe intervenire soltanto quando non sia possibile l’iniziativa e l’intervento diretto dei cittadini, variamente organizzati.

In questo senso, per Noi Giovani il Terzo Settore dovrebbe essere chiamato a sostituirsi all’inefficiente assistenzialismo statale, spesso foriero di sprechi e corruzione.

In quest’ottica, lo Stato deve favorire e non deprimere l’attività del Terzo Settore, riconoscendone il ruolo preminente nella creazione di benessere sociale.
Ed è per questo che Noi Giovani intendiamo promuovere l’adozione urgente di politiche di promozione e valorizzazione del Terzo settore, convinti che sia una risorsa importante per il benessere sociale e lo sviluppo dell’Italia.

lunedì 22 ottobre 2012

Intervista su LSDP a Noi Giovani

Riportiamo sul nostro sito un'intervista appena uscita su Lo Spazio della Politica al nostro presidente Carmelo Dragotta. Buona Lettura!


LSDP. Perché non una lobby giovani?

Per due motivi. Innanzitutto, perché il nostro obiettivo come giovani è di tornare protagonisti della vita politica e istituzionale di questo Paese. Vogliamo riprenderci il nostro posto in Parlamento e nel governo ed essere responsabili in prima persona delle scelte che la crisi sistemica dell’Unione Europea rende necessarie e che disegneranno l’Italia del 2030, cioè quella in cui vivremo noi e i nostri figli. È evidente che l’unico strumento adatto per raggiungere un simile obiettivo è un movimento politico, non certo una lobby. In secondo luogo perché l’azione delle lobby, per definizione, è volta a tutelare interessi particolari, spesso coincidenti addirittura con quelli di singoli committenti piuttosto che di un intero settore economico, mentre noi crediamo che la riscrittura in senso più equilibrato del patto intergenerazionale che lega nonni, padri e nipoti sia nell’interesse dell’intera collettività, e non solo di noi giovani. Non vogliamo creare nuovi squilibri, magari originando un conflitto tra generazioni di cui nessuno sente il bisogno. Vogliamo “solo” correggere l’attuale situazione che vede noi giovani penalizzati su tutti i fronti.


LSDP. Perché secondo voi le associazioni giovanili in Italia finora non hanno funzionato?

In realtà non ci sembra che non abbiano funzionato. Il problema, ancora una volta come per le lobby, è quello degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Oggi in Italia ci sono realtà associative giovanili di assoluto rilievo, pensiamo a Rena o a Italiacamp, solo per fare due esempi. Il punto è che queste realtà hanno deciso di non essere parti attive nelle competizioni elettorali. Non si tratta di partiti, ma di associazioni che promuovono il confronto tra i giovani e con le altre generazioni ed elaborano proposte riformatrici che “suggeriscono” ad altri di realizzare. Questo modo di agire costituisce allo stesso tempo la loro forza e il loro limite: noi crediamo che non sia più rinviabile il ritorno dei giovani in politica. Per farlo però abbiamo bisogno di collaborare proprio con chi in questi anni ha lavorato così bene e ha realizzato un patrimonio di idee che sarebbe un peccato non mettere a frutto. Se non vogliamo che la domanda che ci avete fatto diventi una scomoda verità, movimenti e associazioni giovanili devono unire le forze: il momento storico in cui viviamo è drammatico e ricco di incognite, ma proprio per questo noi giovani abbiamo il dovere di unirci e affrontare i problemi dell’Italia proiettandola nel futuro.

LSDP. Perché non provare a entrare in massa in un partito, magari sfruttando strumenti di democrazia diretta (primarie)?

Perché gli attuali partiti sono i primi responsabili dello stato di irrilevanza e di assenza di prospettiva in cui tutti noi under 40 ci troviamo. Siamo convinti che entrare in uno qualsiasi di essi vorrebbe dire legittimarli tutti, mentre la nostra condanna nei loro confronti non lascia spazio a differenziazioni di sorta. Tuttavia, pur confermando la volontà di restare fuori dai vecchi partiti, di recente abbiamo deciso, coerentemente con il nostro obiettivo di promuovere il ricambio generazionale a tutti i livelli politico-istituzionali, di lanciare la campagna “Sosteniamo Renzi ma non il Pd”. Nella pratica, questo si tradurrà nella creazione di un comitato pro-Renzi che si chiamerà “Adesso! Noi Giovani”. Riteniamo che il 37enne sindaco di Firenze in questo momento interpreti al meglio il bisogno di rinnovamento della politica che non solo noi giovani, ma tutti gli italiani sentono come urgente. Resta inteso il fatto che nessuno degli aderenti a Noi Giovani prenderà la tessera del Pd o di altri partiti. Allo stesso tempo, fra l’altro, proprio per la nostra caratteristica di movimento privo di qualsivoglia approccio ideologico, abbiamo avviato un dialogo con Zero+, Outsider e Fermare il declino e contiamo di farlo al più presto anche con Italia Futura.

LSDP. Né ideologia, né antipolitica: basta la questione generazionale per avere successo alle urne e per governare il paese?

Noi crediamo di sì. Certo non in ogni luogo e in ogni tempo, ma nell’Italia che andrà al voto nel 2013, sedotta e abbandonata dai vecchi partiti, sfiancata dal rigorismo austero e intransigente dei tecnici e frustrata dalla totale assenza di certezze per il futuro, il “partito dei giovani”, che da sempre rappresentano la speranza di ogni comunità, se saprà lavorare in modo intelligente potrà davvero essere il partito di tutti.

LSDP. Chi sono i giovani? Esiste un’identità comune?

Nel nostro statuto abbiamo necessariamente dovuto individuare i “giovani” attraverso un criterio anagrafico, indicandoli in coloro che sono sotto la soglia dei 40 anni. Tuttavia è evidente che quello non può e non deve essere l’unico discrimine. I giovani a cui noi facciamo riferimento sono coloro che affrontano gli impegni della vita di tutti i giorni con metodi innovativi, non necessariamente in senso “tecnologico”, ma anche semplicemente attraverso un approccio nuovo, creativo, intelligente e volto a semplificare mantenendo un elevato valore aggiunto.

Volendo tracciare un ritratto dei giovani del 2012, potremmo dire che siamo immediati, volitivi, tecnologici, creativi. E soprattutto onesti e competenti, a differenza dell’attuale classe politica. Allo stesso tempo però siamo disillusi e poco inclini alla speranza, che invece infervorava gli animi dei giovani dei decenni passati. Purtroppo il tratto comune è questo, la consapevolezza che lo studio non basta, il sapere non basta, il lavoro non basta, il proprio posto nel mondo è incerto. È vero che siamo figli di un’età comoda, che ci ha spinto verso l’individualismo delle scelte al punto da farci sembrare soli. Ma è su questo che vogliamo fare leva: utilizzare la disillusione come motore per accendere le idee e la partecipazione. Scovando nelle loro tane tutte le menti forzatamente assonnate. Anche il nostro metodo è cambiato: né isolate teste pensanti né pensieri collettivi, ma singole idee che discutono tra loro e con le altre generazioni. In poche parole, ci piace pensare di poter tornare a muoverci come tessere di un puzzle.

LSDP. Come è possibile coinvolgere la stragrande maggioranza di giovani che vivono al di fuori delle grandi città, usano il web solo per cazzeggiare su FB, sono disoccupati, lavorano in fabbrica, nelle aziende di pulizie o fanno i baristi?

Nessun partito o movimento, neanche il più aperto e innovativo, può pensare di coinvolgere attivamente tutti coloro che ne costituiscono la base elettorale. Ciò che è importante, in questa fase, è lanciare un messaggio, far capire ai nostri coetanei (dirigenti, manager, precari o disoccupati che siano) e ai ragazzi che ancora vanno a scuola e all’università che mentre il nostro presente di “generazione sfigata” è stato determinato in modo così irresponsabile dai nostri genitori e dai nostri nonni negli stessi anni in cui a casa ci viziavano e ci coccolavano (duole dirlo ma è così), il nostro futuro e quello delle generazioni a venire sono nelle nostre mani. Può sembrare assurdo, ma siamo convinti che questa presa di coscienza sia la parte più difficile del lavoro che ci aspetta. Fatto questo, il resto seguirà.

LSDP. Come è nato “Noi Giovani”?

Nel più banale dei modi: all’inizio eravamo solo un gruppo di amici che si lamentavano delle reciproche sventure lavorative e di non poter programmare neanche le vacanze estive, figurarsi la propria vita nell’arco di cinque o dieci anni. A un certo punto ci siamo detti che quelle esperienze negative potevano essere messe a frutto creando qualcosa che incidesse in maniera determinante anche sulle vite degli altri giovani come noi. Così è nato NG.

LSDP. Quali sono i prossimi passi?

Il primo obiettivo è quello di presentare liste alle regionali del Lazio e della Lombardia, alle comunali a Roma e in tutte le circoscrizioni per le politiche del 2013, quindi stiamo agendo su quattro fronti: campagna associativa, scrittura del programma, comunicazione e creazione di una “rete” e di un sistema di alleanze. A proposito di quest’ultimo punto, a ottobre abbiamo partecipato agli incontri organizzati a Roma da Outsider e Zero+ e da Fermare il declino, lanciando un appello alle altre realtà giovanili per unire le forze in vista della scadenza del 2013, che noi riteniamo di valenza strategica fondamentale per il futuro di quello che abbiamo chiamato il “partito dei giovani”, e stiamo lavorando a un nostro primo evento di presentazione ufficiale.

lunedì 15 ottobre 2012

Andiamo alle elezioni con le nostre facce e la gente ci voterà


L’appello di Noi Giovani alle altre realtà giovanili e a Giorgio Napolitano, per il “Partito dei Giovani” e contro l’innalzamento delle soglie di sbarramento (trascrizione del discorso tenuto da Carmelo Dragotta al congresso degli Outsider, sabato 13 Ottobre 2012).

Buonasera a tutti,
mi chiamo Carmelo Dragotta e oggi sono qui in rappresentanza di Noi Giovani, un movimento nato da pochi mesi, che sta elaborando proposte concrete con un focus su lavoro, diritti e innovazione, con un approccio orizzontale, aperto e collaborativo. In proposito vi invito a collaborare iscrivendovi al nostro gruppo Facebook per dare il vostro contributo.

Lavorando al programma siamo giunti alla conclusione che la condizione di totale precarietà dei giovani – non solo dal punto di vista lavorativo – derivi innanzitutto dalla mancanza di una loro partecipazione attiva alla vita politica e dalla loro scarsissima rappresentanza ad ogni livello istituzionale.
Per troppi anni noi giovani abbiamo delegato la rappresentanza dei nostri interessi a politici e governanti incapaci di interpretarli e di difenderli.
Proprio per questo, fin da subito a differenza di altri, non abbiamo avuto paura di tenerci lontani dalle realtà politiche già esistenti e legate a vecchie ideologie e abbiamo deciso di dare a Noi Giovani, fin dal suo concepimento, un orizzonte elettorale. Sappiamo che l’obiettivo di essere presenti alle elezioni non è solo ambizioso, ma può apparire anche velleitario; non ci nascondiamo le difficoltà sul fronte organizzativo e burocratico né su quello prettamente politico né su quello dei mezzi con cui affrontare la campagna elettorale, ma siamo convinti che oggi sia necessario per i giovani trovare il coraggio di portare avanti un’azione chiara e anche lucidamente folle, che li porti a impegnarsi in prima persona in maniera diretta e chiaramente riconoscibile per gli elettori.

E’ ora che noi giovani la smettiamo di fare i portatori d’acqua ai mulini altrui e ci affranchiamo da padri nobili e padrini.
Dobbiamo trovare il coraggio di dire che siamo diversi, che siamo onesti, che siamo preparati, che non abbiamo complessi di inferiorità nei confronti di nessuno anche perché in effetti non siamo inferiori a nessuno. Anzi.
Noi giovani dobbiamo andare in mezzo alla gente a prendere i voti che la gente non vuole più dare non alla politica, ma ai vecchi politici e anche ai politici vecchi.
Siamo convinti che sia ora che tutti i movimenti, le associazioni, i centri di ricerca, i think tank e le lobby giovanili, a prescindere dalle divisioni ideologiche, la smettano di dibattere al proprio interno sulle soluzioni ai problemi della nostra generazione solo per svenderle ai “potenti” di turno che alla fine, come sempre, presenteranno alle elezioni liste formate per il 99% da candidati sopra i 40 anni.
Oggi, in Italia, noi giovani abbiamo la grande opportunità di presentarci alle elezioni con le nostre facce, con le nostre competenze e con la nostra energia e siamo certi che in tanti stiano aspettando proprio questo per tornare a votare con fiducia per qualcuno.
Per questo oggi siamo venuti qui a proporre a Zero Positivo, agli Outsider, a Rena, a Italiacamp e a tutte le realtà giovanili di unire le nostre forze e di cominciare a lavorare a un progetto davvero ambizioso, quello di dare agli italiani la possibilità di scegliere i giovani sulla scheda elettorale.
Ovviamente non vogliamo mettere in piedi un progetto suicida.
Ci rendiamo conto che in ogni caso la “lista dei giovani” non potrà presentarsi da sola alle elezioni, pena il fallimento. Sappiamo che sarà necessario stringere delle alleanze. Ma proprio perché il quadro politico è ancora estremamente fluido e proprio perché le prossime elezioni rappresentano per noi giovani una occasione di portata storica che non possiamo permetterci di perdere, siamo convinti che sia necessario abbandonare da subito ogni indugio e mettersi a lavorare insieme, come Zero Positivo e Outsider hanno già fatto nell'organizzazione di questo evento.

La prima azione da fare in questo senso è un’azione mediatica che smascheri tutte le ambiguità della riforma elettorale in discussione. E’ una bozza che gli attuali partiti sono d’accordo nell’approvare solo per spirito di autoconservazione. La cosa più evidente per chi si sta impegnando in questi mesi per presentare una proposta politica alternativa è l’innalzamento della soglia di sbarramento. E’ palese che solo chi abbia già un leader dotato di grande visibilità sul piano nazionale potrà ambire a superare le nuove soglie. Ed è proprio questo che gli attuali partiti vogliono: restringere all’osso le possibilità che le realtà fuori dal coro come le nostre entrino in campo direttamente.
Dobbiamo quindi mobilitarci insieme per una prima importante battaglia, quella contro le soglie di sbarramento della nuova legge elettorale che precluderebbero ai giovani l’accesso diretto alle istituzioni, di cui non solo i giovani ma tutto il Paese ha bisogno. Già venerdì Giorgio Napolitano è intervenuto per fissare alcuni paletti sulla bozza in discussione al Senato. Crediamo che sarebbe opportuno rivolgerci a lui, a un grande vecchio della storia d’Italia, per chiedergli di farsi garante della nostra possibilità di essere protagonisti. Vogliamo avere anche noi l’opportunità di ricostruire l’Italia come loro hanno fatto dopo la guerra.

Vorrei lasciarvi a questo punto con una frase che, al di là della storia politica di chi l’ha pronunciata, Enrico Berlinguer, oggi più che mai dev’essere per noi fonte di ispirazione: “La prima, essenziale, semplice verità che va ricordata a tutti i giovani è che se la politica non la faranno loro, essa rimarrà appannaggio degli altri, mentre sono loro, i giovani, che hanno l'interesse fondamentale a costruire il proprio futuro e innanzitutto a garantire che un futuro vi sia”.

Grazie.


venerdì 12 ottobre 2012

Viva l'Europa!

Il Nobel per la Pace 2012 all'Unione Europea.


E' una notizia che deve renderci fieri della nostra Unione Europea, che deve rammentarci che siamo, prima di tutto, cittadini europei, e che deve spronare Noi Giovani a lavorare affinché l'idea di un'unica casa europea si affermi su qualsiasi tentazione nazionalista. 

Il comunicato ufficiale con le motivazioni del Nobel alla UE:

Il Comitato norvegese dei Nobel ha assegnato il Premio Nobel per la Pace 2012 all’Unione Europea (UE). L’Unione e i suoi leader hanno contribuito in oltre sessant’anni ai progressi nella pace e nella riconciliazione, nella democrazia e nei diritti umani in Europa.
Negli anni della guerra, il Comitato norvegese dei Nobel consegnò diversi premi alle persone che si erano impegnate nel cercare di far riconciliare Francia e Germania. A partire dal 1945, quella riconciliazione è diventata realtà. La terribile sofferenza nella Seconda guerra mondiale ha dimostrato la necessità di una nuova Europa. Oltre un periodo di settant’anni, Germania e Francia hanno combattuto tre guerre. Oggi una guerra tra Germania e Francia è impensabile. Questo dimostra come nemici storici possano diventare partner molto stretti, attraverso sforzi condivisi per creare reciproche complicità.
Negli anni Ottanta, la Grecia, la Spagna e il Portogallo si sono uniti alla UE. L’introduzione della democrazia fu una condizione necessaria per il loro ingresso. La caduta del muro di Berlino ha reso possibile l’ingresso nella UE di altri paesi dell’Europa centrale e orientale, aprendo una nuova era nella storia europea. La divisione tra Est e Ovest è arrivata dopo grandi sforzi a una fine; la democrazia si è rafforzata; molti conflitti etnici sono stati risolti.
L’ammissione della Croazia come nuovo membro il prossimo anno, l’apertura dei negoziati con il Montenegro, e la Serbia come membro candidato all’ingresso, sono fattori che rafforzano il processo di riconciliazione nei Balcani. Nell’ultimo decennio, la possibilità di includere nella UE anche la Turchia ha portato a progressi nella democrazia e nel rispetto dei diritti umani in quel paese.
L’UE sta affrontando grandi difficoltà economiche e un forte malcontento. Il Comitato norvegese dei Nobel desidera concentrarsi su ciò che reputa il più importante risultato raggiunto dalla UE: il successo derivante dallo sforzo per tutelare la pace, la riconciliazione, la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilizzatore svolto dalla UE ha contribuito a trasformare in buona parte l’Europa, da un continente di guerra a uno di pace.
Il lavoro della UE rappresenta la “fratellanza tra le nazioni”, ed equivale ai “progressi di pace” cui Alfred Nobel fa riferimento nel proprio testamento del 1895 per il Premio per la pace.

giovedì 27 settembre 2012

Aumentare la produttività e salvare le foreste? Muovendosi Agile!

di Stefano Marangoni


Spesso negli ultimi tempi abbiamo sentito dire che il PIL italiano va a picco. Altrettanto spesso ci sono state proposte soluzioni perlomeno discutibili, come ad esempio la riduzione delle festività: se c’è poco lavoro, a cosa serve essere alla propria scrivania a Ferragosto?
Il problema vero è casomai la scarsa produttività italiana, dovuta da una parte ad inefficienze, dall’altra a scarso stimolo dei dipendenti. Chiunque abbia lavorato in una Pubblica Amministrazione o in una grande azienda sa che si passa la maggior parte del proprio tempo a compilare documentazione, preparare report, chiedere autorizzazioni, lasciando alle attività tipiche della propria professione uno spazio residuale. È un problema non solo italiano, sia chiaro: l’enorme mole di documentazione richiesta in un progetto di una grande azienda o di una grande amministrazione pubblica è una caratteristica comune a tutte le società industriali avanzate. Nel nostro Paese però questa tendenza universale si associa ad una propensione tutta italica alle procedure barocche, che rende ancora più evidente (e paralizzante) il problema.
Come venirne fuori? Smettendola di pensare alle industrie come se fossero ancora quelle di 40 anni fa. E’ compito di Noi Giovani introdurre nuove metodologie lavorative, figlie dei nostri tempi.
In uno dei settori industriali più giovani, quello del software, questo problema è già stato affrontato. Era il 2001 ed un gruppo di guru dell’informatica si riunirono e scrissero quello che è passato alla Storia come Manifesto Agile [1]:
Stiamo scoprendo modi migliori di creare software,
sviluppandolo e aiutando gli altri a fare lo stesso.
Grazie a questa attività siamo arrivati a considerare importanti:
Gli individui e le interazioni più che i processi e gli strumenti
Il software funzionante più che la documentazione esaustiva
La collaborazione col cliente più che la negoziazione dei contratti
Rispondere al cambiamento più che seguire un piano
Ovvero, fermo restando il valore delle voci a destra,
consideriamo più importanti le voci a sinistra.
Da questo Manifesto sono state sviluppate diverse metodologie operative per lo sviluppo software, che una volta applicate hanno consentito una riduzione drastica dei tempi di consegna del software, oltre ad una maggiore soddisfazione del cliente.
Queste metodologie sono però pensate per il mondo dell’industria del Software e non possono essere prese ed utilizzate così come sono anche in altri ambiti. Questa obiezione, facile ed immediata, è alla base del lavoro di vari gruppi nel mondo per esportare queste metodologie in altri campi. Tra questi, il più importante ed interessante è sicuramente il gruppo di Wikispeed [2], guidato da Joe Justice.
È bene presentare il progetto Wikispeed con le parole usate dallo stesso Joe Justice in un’intervista al blogger italiano Simone Cicero [3]:
Wikispeed costruisce autovetture ultra efficienti e lo fa con cicli di sviluppo di sette giorni utilizzando metodologie Agili.
La manifattura tradizionale vive di cicli di sviluppo prodotto che vanno da 3 a 25 anni: questo significa che si può andare ad un concessionario Porsche e comprare una nuova Porsche 911, un auto che rappresenta il meglio che gli ingegneri Porsche ritenevano possibile 24 anni fa e, se continuiamo su questo esempio, Porsche ha recentemente annunciato che l’attuale Porsche 911 starà con noi per i prossimi 14 anni.
In Wikispeed puntiamo alla personalizzazione di massa, a uno sviluppo molto rapido e a tecnologie ed efficienze che non sono ancora esistenti, che sono pienamente gamechanging e non solo una evoluzione incrementale di tecnologie vecchie e talvolta già defunte.
Per fare questo dobbiamo iterare i cicli di sviluppo su sette giorni, che significa che possiamo cambiare ogni aspetto della vettura ogni sette giorni. Ciò è possibile attraverso la modularità: l’auto si divide in otto moduli che sono debolmente accoppiati in modo che si possa cambiare uno e non cambiare gli altri.
Wikispeed ha come missione quello di risolvere rapidamente i problemi per il bene sociale. Non ci limitiamo alle automobili: di recente ho tenuto una conferenza sui metodi per la distribuzione del vaccino per l’eradicazione della Polio; abbiamo lavorato con un gruppo di medici che sviluppa i centri per l’assistenza a basso costo e le comunità che possono alimentarli e su questo progetto abbiamo fatto un notevole lavoro con loro.

Il team Wikispeed, per sviluppare le proprie auto modulari, ha elaborato una evoluzione di una delle metodologie Agile ( la XP, Extreme Programming) e l’ha chiamata Extreme Manufacturing, XM.
Riprendendo un altro estratto dall’intervista di Simone a Joe Justice:

XM è la metodologia per consentire alle altre imprese di fare questo cambiamento alla stessa velocità di Wikispeed. XM è una metodologia agile: ci vogliono le migliori metodologie applicate dalle migliori squadre di svilippo software, estrapolate per renderle applicabili a tutti i settori.
In particolare stiamo applicando questi metodi alla ricerca e sviluppo, alla produzione fisica o all’ingegneria e pensiamo che una tale processo possa essere utilizzato anche per la finanza, le assicurazioni, l’energia, la legge, la gestione della comunità, l’edilizia residenziale e commerciale e anche altre imprese.
XM adotta tutte le best practice per la gestione dei team distribuiti, i principi dell’ingegneria e del design frugali e le applica al mondo fisico della manifattura.
Chiedere ad una Pubblica Amministrazione di uno Stato come l’Italia, o ad un grande gruppo industriale come Finmeccanica, di adottare delle metodologie che sono ancora in prima evoluzione è chiaramente una follia. Sarebbe bello però che un ministro si occupasse del tema della crescita del PIL affrontando di petto la scarsa produttività italiana con soluzioni innovative. Si potrebbero scegliere dei progetti pilota, in cui l’intera catena produttiva è sotto controllo dello Stato (ad esempio, la costruzione di un treno per Trenitalia commissionata ad Ansaldo Breda, gruppo Finmeccanica, in cui i sottosistemi del treno in questione vengono prodotti da altre società del gruppo Finmeccanica) e avviare su questi progetti una sperimentazione di nuovi metodi di lavoro, basati sul Manifesto Agile e sulle metodologie derivate da questo.  Gli aspetti che meglio funzionano in questi progetti, potrebbero poi essere adottati su larga scala in tutto il gruppo Finmeccanica, lasciando i metodi ancora da rodare ai progetti pilota. Poi si potrebbe passare da Finmeccanica alla Pubblica Amministrazione, portando anche in questa realtà le soluzioni meglio riuscite e già sperimentate. Così facendo, in un paio di anni potremmo passare dall’essere un Paese a scarsa produttività ad essere un esempio e un avanguardia per tutto il mondo.
Per chi non lo sapesse, Joe Justice sarà a Roma il 29 Settembre per parlare di Wikispeed e di metodologie Agili. Una delegazione di Noi Giovani (guidata dal sottoscritto) sarà presente. Secondo voi ci saranno altri movimenti politici?

lunedì 24 settembre 2012

Una scelta normale: essere genitori giovani in un’Italia vecchia

di Dario D'Urso


Primo episodio: una giovane coppia (29 anni entrambi) non sposata cerca una casa da acquistare a Roma. Pur conoscendo bene l’impossibilità dell’impresa, in considerazione del mercato immobiliare ‘drogato’ della Capitale, i due ci provano lo stesso, dando un’occhiata – che tracotanza! – anche ai quartieri centrali. Lei, in tutto questo, è al quinto mese di gravidanza. I nostri visitano uno di quegli appartamenti fatti apposta per una coppia di innamorati e con un prezzo da coppia di rampolli dell’alta finanza. Al momento del congedo, la sessantenne padrona di casa, guardando il pancione di lei, non riesce a trattenere un appello dal vago sapore di ammonizione verso i due (im)probabili acquirenti: ‘aspettate un bambino? Alla vostra età? Certo, ne avete di coraggio…’. I nostri due amici si guardano in faccia, un po’ increduli e un po’ infastiditi. Sono lì lì per replicare e far valere il merito di una scelta normale che, in tempi generazionalmente perversi come i nostri, sembra essere diventata un atto eroico, quasi incosciente. Poi ci ripensano, alzano le spalle, accennano un falso sorriso di cortesia alla severa detentrice dell’ordine generazionale italiano (e di un costosissimo buco monticiano) e se ne vanno.  
Secondo episodio: stessa coppia di prima, ma con il pargolo già arrivato. Lui, il neopapà, si ritrova per varie peripezie ad una cena di amici, da solo. È seduto accanto a delle ragazze che non conosce, ma che, incuriosite dalla valanga di auguri, brindisi e pacche sulle spalle che riceve, gli chiedono il perché di tutta questa celebrazione. ‘È che sono diventato padre’, risponde, un po’ timido, il nostro. ‘Ma scusa, quanti anni hai?’, fa una delle vicine di tavolo, più confusa che persuasa. Il ‘ventinove’ di risposta scatena un meravigliato, quasi urlato ‘allora sei un ragazzo padre!’. A quel punto, il nostro giovane genitore, pensando a quanto in effetti gli piacerebbe avere 6-7 anni in meno, si tuffa sul piatto di pasta che ha di fronte, non prima di aver pronunciato un ‘eh..’ pregno di significati.
Cosa ci dicono questi due episodi (realmente accaduti)? Che per due persone appartenenti a generazioni molto lontane (una sessantenne e una ventenne) l’idea che una coppia di quasi trentenni decida di mettere al mondo un figlio sia, perlomeno, curiosa. Non al passo con i tempi, forse; sicuramente temeraria. Ecco a voi l’effetto sulla mente degli italiani (di tutte le età) di vent’anni di precarietà e di totale disinteresse per le nuove generazioni. In un paese in cui le politiche di appoggio alla paternità/maternità sono pressoché inesistenti, in cui a 30 anni è più che normale saltare da un contratto all’altro e in cui a 40 si è ancora troppo giovani per occuparsi della cosa pubblica, si è consumata la deresponsabilizzazione di un’intera generazione. In questo contesto, il legittimo desiderio di molti giovani italiani di avere un figlio viene mortificato due volte: logisticamente – per la mancanza di un appoggio istituzionale – e culturalmente –  perché ormai è comunemente accettato che si diventi genitori intorno ai 40 anni.
Chi si scaglia contro questo genere di situazioni lo fa spesso da posizioni religiosamente ‘interessate’, assoggettando il tema della procreazione ad un’imprescindibile morale cattolica. Ciò svilisce il tema, che è invece di assoluta rilevanza anche per chi non è credente e – soprattutto – per chi non vede nel matrimonio una precondizione alla scelta di diventare genitore. Si tratta di una battaglia squisitamente laica, una vera e propria sfida generazionale, la cui stessa esistenza rappresenta un ulteriore segnale della senescenza della nostra classe politica – che, semplicemente, non si pone un problema non suo.
Come si può invertire la tendenza? Qualsiasi intervento pubblico a riguardo dovrebbe rispondere ad una semplice logica: semplificare la vita di coloro che, pur non godendo del tutto di una stabilità professionale,  nonché di quella rete di sicurezza spesso rappresentata dalle famiglie di origine, decidono di avere un figlio. Questo può tradursi in un appoggio finanziario per le spese che un bambino comporta (ad esempio tramite un sistema di buoni da spendere in farmacie e supermercati per l’acquisto di pannolini e latte in polvere), in un potenziamento della rete degli asili nido comunali e – soprattutto – di quelli nei posti di lavoro. Quest’ultimo punto, in particolare, rappresenterebbe un vero e proprio strumento di politica industriale, nonché un volano per l’occupazione femminile e per una reale parità tra i sessi. A ciò si potrebbe aggiungere una maggiore equiparazione tra i diritti dei padri e delle madri, specie in ambito professionale, e un migliore accesso al credito per i neogenitori.
La crisi generazionale in cui langue il nostro paese dagli anni ’90 ha inculcato nel sentire comune l’idea per cui un figlio rappresenti essenzialmente un costo insostenibile ‘con i tempi che corrono’ e uno svantaggio nell’accanita competizione per il nostro tanto desiderato posto al sole, che tarda sempre più ad arrivare. Checché ne dicano vecchie padrone di casa o ventenni all’avanguardia (presunta), un figlio è innanzitutto un’occasione per migliorarsi, come persone e come cittadini. Prima la classe politica di questo disgraziato paese lo capirà, prima potremmo ritrovare la strada della dignità, che da troppo tempo l’Italia sembra aver smarrito. 

giovedì 20 settembre 2012

Le convention americane (e lezioni per le primarie)

di Danilo Raponi (articolo apparso in precedenza su iMille)


Con le convention di fine estate i democratici e repubblicani americani tradizionalmente scelgono i loro candidati per le cariche di presidente e vice presidente degli Stati Uniti. Quest’anno si sono tenute dal 2 al 6 settembre 2012 a Tampa, in Florida, e a Charlotte, North Carolina. I repubblicani hanno sancito la nomination di Mitt Romney a presidente e Paul Ryan a vicepresidente, mentre i democratici hanno confermato il ticket Obama-Biden. Prima di entrare nel merito dell’articolo, con il quale mi propongo di analizzare i meriti e demeriti democratici della convention come strumento politico, è opportuno precisare che fino al 1960 erano molto diverse da quello che sono oggi: nelle convention i delegati discutevano, dibattevano, si scontravano, cercavano posizioni comuni, esaminavano i candidati e, soltanto alla fine, esprimevano il proprio voto che, talvolta, non mancava di riserbare sorprese.

In alcune occasioni non si riuscì neppure ad esprimere una chiara maggioranza, se non dopo ripetute votazioni, come quella che nel 1932 vide Franklin Delano Roosevelt nominato soltanto dopo la quarta sessione di voto, che si tenne nelle tarde ore della notte. Il suo oppositore di allora, Wendell Willkie, andò poi a vincere la nomination repubblicana nel 1940 al sesto ballottaggio. Nel 1956 Adlai Stevenson, riscontrando contrasti pressoché insanabili tra due anime del partito democratico, chiese ai delegati della convention di scegliere il candidato a vice presidente tra John F. Kennedy e Estes Kefauver, a favore di quest’ultimo. L’ultima convention che svolse davvero il suo ruolo di organo con poteri decisionali fu quella del partito democratico nel 1968, che elesse Hubert Humphrey a candidato alla presidenza, nonostante non avesse neppure partecipato alle primarie. Quest’ultime erano state vinte da Eugene McCharty, che vi partecipò con un piattaforma fortemente contraria alla guerra in Vietnam, ma nulla poté contro il voto dei delegati.

Questo episodio spinse il partito democratico a convocare una commissione speciale, la quale stabilì che da allora in poi i candidati alla presidenza sarebbero stati scelti tramite le primarie, con i delegati che avrebbero votato secondo le indicazioni espresse dai cittadini. In teoria, ancora oggi, è possibile che le primarie non riescano ad individuare un candidato con una solida maggioranza, e in questo caso la convention servirebbe a raggiungere un compromesso su un candidato, anche tra chi non ha partecipato alle primarie. Ma è molto poco probabile che ciò accada. Ecco dunque che le convention moderne si sono trasformate, più che altro, in un grande esercizio di public relations, sono strumenti di propaganda politica piuttosto che di selezione di un candidato espressione del partito.

Non bisognerebbe però lasciarsi andare alla tentazione di compiangere la formula originaria della convention, dove si annidavano interessi speciali, spesso corporativi e poco trasparenti, che portavano a scelte talvolta dettate da preferenze più particolari che generali. È però pur vero che, oltre tutti i loro difetti, le vecchie convention esaltavano l’arte del compromesso, fondamentale per il buon governo. In questo modo, le ali estreme del partito perdevano molta della loro importanza e i “grandi saggi” di ogni partito appoggiavano i candidati che con maggiore probabilità avrebbero potuto conquistare il centro politico, essenziale per il successo nelle elezioni generali.

Adesso, invece, sembra che “centro” sia un’espressione volgare e che il compromesso sia da considerarsi come manifestazione di debolezza e dunque da evitarsi in qualsiasi modo, con il risultato che le convention non fanno che esaltare le opinioni dei più intransigenti. Quest’anno è stato particolarmente evidente nella convention repubblicana, dove Chris Christie e Marco Rubio, due delle menti più fini del partito repubblicano, hanno a malapena accennato a Romney e Ryan, preferendo invece parlare più di loro stessi e di astratte idee conservatrici, dando dunque l’impressione di pensare alle loro carriere piuttosto che a quella di Romney: difatti, l’insuccesso di quest’ultimo alle elezioni di quest’anno renderebbe una loro candidatura alla nomination repubblicana del 2016 molto probabile, altrimenti se ne riparlerebbe nel 2020.

Nel complesso, tuttavia, le convention moderne sono da preferirsi su quelle antiche. L’introduzione delle primarie “vincolanti” ne ha determinato la loro natura molto democratica e aperta, e il fatto che ormai non servano più a nulla se non a pubblicizzare il candidato già scelto è forse un bene, in quanto interessi speciali e “baroni” di partito non possono più interferire nella scelta degli elettori. Spesso le nuove convention servono anche a chiarire il programma elettorale e la filosofia politica di ogni candidato, seppure la convention repubblicana di quest’anno sia stata deludente anche da questo punto di vista. Abbiamo capito tutti che i repubblicani amano le loro famiglie più di qualsiasi altra cosa e sono contrari a ogni proposta politica che si possa scontrare contro il concetto tradizionale di famiglia. Abbiamo anche appreso che i repubblicani pensano che “we are on our own”, che siamo da soli nella società e che dovremmo essere soltanto noi stessi ad aiutarci in momenti di difficoltà, non lo stato. Infine, abbiamo anche assistito alla rivendicazione dell’individualismo assoluto dell’I built it, in aperta polemica con Obama il quale aveva ragionevolmente affermato che anche l’imprenditore più di successo deve qualcosa alla società che ha permesso che la sua idea si affermasse e che ha fornito gli strumenti e l’ambiente favorevole alla sua creazione. Apparentemente, i repubblicani sembrano credere che Mark Zuckenberg abbia creato Facebook da solo, così come Bill Gates aveva fatto con Microsoft (entrambi gli interessati, tra l’altro, smentiscono che una cosa del genere sarebbe mai stata possibile).

Le convention moderne svolgono anche l’importantissimo ruolo di coinvolgere la base del partito, con i migliaia di giovanissimi volontari che rendono l’evento possibile, ma anche e soprattutto con i discorsi che si susseguono nei tre giorni dell’evento. Il keynote speaker è spesso l’astro nascente del partito, tanto che nella convention democratica del 2004, quella che sancì la nomination di John Kerry, a dare il keynote speech fu chiamato un signore allora semi-sconosciuto, di nome Barack Obama, che non impiegò molto, da quel momento che lo consacrò all’attenzione del mondo, a divenire il primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti d’America. Quest’anno il keynote speaker per la convention repubblicana è stato Chris Christie, mentre al quarantaduenne senatore Marco Rubio è stato affidato il discorso di introduzione alla nomination di Mitt Romney. Entrambi Christie e Rubio sono da tenere d’occhio, ne sentiremo parlare ancora indipendentemente dall’esito delle elezioni del prossimo novembre.

Per i democratici è stato addirittura il trentasettenne Julian Castro, sindaco di San Antonio, a farsi carico del keynote speech. Con una brillante carriera politica avviata già da tempo, il giovane Castro è una delle promesse del campo democratico. Alla convention democratica ha parlato anche la trentunenne Tulsi Habbard, un’hawaiana e veterana di guerra che, se eletta al Congresso, sarà la prima donna veterana di guerra ad occupare un seggio del Congresso americano e la prima Hindu. È un’altra rising star dei democratici. A differenza della convention repubblicana, in quella democratica si è anche parlato di contenuti, di idee, di programmi. Con un discorso esemplare e seguitissimo, Bill Clinton ha spiegato all’America che questa, più che mai, è un’elezione in cui si andrà a scegliere non già tra due uomini, bensì tra due visioni diverse del ruolo del governo e dello stato nella società. I repubblicani, polarizzati dai tea party, sembrano avere come obiettivo unico la riduzione delle tasse per i più ricchi e i tagli ad alcune voci della spesa pubblica necessarie a creare opportunità e garantire assistenza sociale e sanitaria per le classi povere. I democratici, invece, sostengono convinti che, nelle parole di Clinton, “we are all in this together is a better slogan than you’re on your own” (siamo tutti assieme in questo è uno slogan migliore di sei da solo), che il ruolo dello stato negli anni a venire sarà fondamentale, come garante di equità, di opportunità per tutti, di giustizia sociale, di regolamentazione ferrea ma non oppressiva del settore finanziario, di guida degli Stati Uniti e dell’occidente in un mondo instabile e pericoloso.

Lunga vita alle convention allora! Nonostante i loro difetti e la loro tendenza a divenire strumenti di “marketing”, le convention americane moderne rimangono pur sempre uno straordinario strumento di democrazia. Di più, sono uno dei tasselli fondamentali della più grande democrazia del mondo: presentano i candidati al paese, chiariscono le idee dei partiti, e offrono una piattaforma di lancio per i futuri leader. Nulla di tutto ciò esiste, purtroppo, in Italia, dove i partiti cercano di evitare in tutti i modi di indire congressi e, pur quando indetti, li riducono a un osanna collettivo e artificiale al Grande Burattinaio di turno, per riscoprire una felice espressione di Ernesto Galli della Loggia. Possibilità di scelta e di intervento da parte dei cittadini non sono previste. Degli esponenti più giovani del partito, poi, nessuna traccia. Sembra che uno dei requisiti per parlare a un congresso di partito in Italia sia l’essere già stati in Parlamento per almeno 20 anni. C’è da sperare, per il bene della politica italiana, che il Partito Democratico voglia invertire questa tendenza con l’indizione di primarie serie e veramente competitive e, perché no, con la consacrazione del candidato prescelto dai cittadini in una convention in vero stile americano.

lunedì 17 settembre 2012

Noi Giovani: un nuovo partito per una nuova politica


di Andrea Danielli

La società civile percepisce chiaramente la fine di un’era e si getta a capofitto nell’arena politica. Emergono nuovi partiti e nuovi movimenti e la loro anagrafe diventa ogni giorno più ricca.
Vedo una forte presenza di partiti riformisti, votati a cambiare l’Italia, a renderla un paese più moderno ed efficiente.
Non nascondo una certa affinità con i loro progetti ma, allo stesso tempo, sento il dovere di metterli in guardia da un rischio oggi sottovalutato: quello di parlare a un’elite.
È importante rivolgersi al mondo start up, promuovere un’agenda digitale, avvalorare il merito, pensare a come diminuire le spese dello stato e ridurre il debito pubblico.
Ma occorre rendersi conto che la politica è creazione del consenso e che, se si vogliono vincere le elezioni in Italia, occorre parlare al più ampio numero possibile di persone, non solo a quel 2-3% di giovani imprenditori, esperti di macro economia, ricercatori.
I disoccupati, i nuovi poveri, gli impiegati del pubblico, hanno bisogno di speranza e rassicurazioni.
Non nascondiamo ai nostri elettori che le riforme paventate avranno anche effetti negativi: la parola “merito” significherà per qualcuno “punizione”. Taglio della spesa pubblica significherà prepensionamenti, trasferimenti di personale, maggiore produttività (e calo dell’occupazione).
Per uscire dalla spirale del debito pubblico l’unica strategia sensata è quella della crescita. Ci sono diverse ricette per ottenerla, e dobbiamo capire se ci interessano i numeri (le percentuali di PIL) o le persone. Perché in anni recenti abbiamo visto tanti episodi di crescita gonfiata (basata su semplici speculazioni edilizie o finanziarie) e il castello di carta è poi rovinosamente crollato (Stati Uniti, Spagna, Irlanda, Islanda, Grecia).
La crescita è opportunità di benessere per tutti, e lo è tanto più le strategie sono condivise: un parco eolico è crescita o disastro paesaggistico? La TAV è opportunità di trasporti più rapidi o una spesa eccessiva? La politica deve saper dare delle risposte, senza tentare scorciatoie autoritarie.
La grave crisi economica non si è ancora trasformata in un ripensamento delle condizioni e delle cause che l’hanno originata. Questo perché mediaticamente la crisi dei debiti sovrani occupa i media di continuo, il dio spread è argomento di conversazione quotidiana. Gli oppositori al capitalismo sono disordinati e, ahimè, sovente ignoranti; infine sbagliano, a mio avviso, nel voler criticare un intero sistema, o nel proporre iniziative completamente fuori bersaglio come “cancellare il debito” (l’Italia ha bisogno di capitali esteri: perdere la fiducia, e l’accesso al credito, chiuderebbe a riccio la nostra economia).
Non credo che sia il capitalismo in sé il problema, ma la deriva che ha preso: un cattivo uso della globalizzazione e un peso eccessivo della finanza creano disuguaglianza e crisi cicliche.
I correttivi sono a nostra disposizione già oggi e, in parte, appoggiano su uno dei vanti principali dell’Europa: il welfare.
Le evidenze parlano chiaro: il libero mercato produce un maggiore sviluppo, se correttamente regolato, e, in un paese di microimprese, non ha più molto senso la dicotomia sfruttati-sfruttatori.
Il ruolo dell’imprenditore è centrale per creare nuova ricchezza e posti di lavoro, perché non tutti possiamo (o vogliamo) ambire a dirigere altri lavoratori. I suoi soprusi, anche ambientali, si combattono con le leggi e la cultura.
Allo stesso tempo, invito i liberali a valutare correttamente l’importanza di una società organica, felice e collaborativa.
Alcuni esempi serviranno a chiarire la mia visione.
Partiamo dalla sanità. Il fatto che esistano strutture che garantiscono visite gratuite è una garanzia per tutti, poveri e benestanti. Chiunque si può ammalare di HIV o di altre malattie contagiose, indipendentemente dal portafogli. Se a tutti è possibile una visita gratuita da parte di personale competente, cala la diffusione di patologie pericolose.
La povertà di intere sacche del sud offre la bassa manovalanza per la criminalità organizzata che poi taglieggia e minaccia gli imprenditori di tutta Italia: la povertà non è solo un problema per chi la vive, evidentemente.
La presenza di immigrati è una ricchezza in termini di cultura, lingue, tradizioni, cibi, di cui può approfittare anche la persona agiata. Stesso discorso per la presenza di giovani formati: è una ricchezza per le nostre aziende e per le nostre istituzioni (da cui dipendono direttamente i nostri servizi).
Una società in cui alberga fiducia reciproca spende meno in sistemi di autodifesa (contro le frodi, contro furti e rapine) e collabora più facilmente (per creare nuove imprese, nuovi progetti). Una società retta da fiducia sa affrontare le sfide del futuro, senza paura.
Se proiettiamo alla società quanto accade in ambiti più ristretti, vediamo che, negli ambienti di lavoro affollati, se i colleghi sono simpatici e allegri, è più facile relazionarsi, la produttività è più alta e si sopporta meglio lo stress.
Le malattie da società avanzata, ansia e depressione, ci costano ogni anno milioni di euro in farmaci e bassa produttività (si parla di 8 milioni di depressi in Italia). La politica deve tornare a pensare alla felicità delle persone, senza pretendere di indirizzarla, ma tentando di favorirla: investendo in cultura, crescita personale, salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, cura dei più deboli (anziani, disabili, giovani disoccupati). E’ un investimento a lungo termine, e richiede una politica di lungo termine: il contrario della Seconda Repubblica, fondata sui sondaggi.
D’altronde la Seconda Repubblica è stata una delle più grandi opportunità mancate della recente storia: finalmente liberata dalla lotta ideologica, la politica avrebbe potuto dedicarsi ai cittadini, cercando di risolvere problemi concreti, migliorando la competitività internazionale del paese.
Questa opportunità si apre per la Terza Repubblica, se riusciamo a sostituire la classe dirigente. È una precondizione essenziale per ripartire: l’Italia ha bisogno di un nuovo patto sociale. Questo si fonda sulla fine delle lotte tra imprenditori e operai, tra giovani e vecchi, tra Nord e Sud, tra province e comuni, tra Stato e regioni.
Lotte che servono certamente per conquistare una propria fetta di potere ma che hanno paralizzato il paese. Lotte che si sono nutrite di rancori, di invidie, di paure, che hanno alimentato una visione della democrazia perversa, per cui i diritti sono di chi urla più forte.
In tanti hanno cavalcato la rabbia popolare, e tanti la cavalcheranno. Ma si rispetta davvero l’elettorato se si sa rinunciare a seguirlo nei suoi istinti più bassi. Anche saper dire di no alle richieste dei propri elettori rientra in questa visione di politica responsabile; di fronte a certi populismi è addirittura necessario. Insistere solamente sui costi della politica, sui mandati dei rappresentanti, porta a mancare l’obiettivo. La politica riflette una società che troppo a lungo si è disinteressata del bene comune, seguendo la crescita di benessere o abituandosi a esso.
Fare politica non significa ubbidire passivamente ai propri elettori. Significa condividere con loro un progetto in cui è fondamentale esprimere le proprie opinioni, significa inoltre poter sperimentare e innovare, senza diktat e pregiudizi. I fenomeni sono troppo complessi per essere prevedibili, e la sperimentazione controllata è l’unico strumento a nostra disposizione per riformare la società. D’altronde, e faccio un esempio volutamente provocatorio, esperimenti di sostituzione del welfare pubblico da parte di privati sono già in atto, attraverso l’impegno di attori del terzo settore, capaci di gestire risorse scarse e offrire servizi di qualità (penso all’assistenza ai disabili, ai malati terminali, alle case famiglia, al dopo scuola e all’italiano per stranieri).
Quello che dobbiamo mettere in piedi non è un progetto che si prepara in pochi mesi. Dobbiamo avere l’onestà di dire ai nostri elettori che non abbiamo soluzioni immediate, quasi magiche, ma che se votano per noi, porteremo avanti un cambiamento di lungo termine, avendo chiaro in che direzione vogliamo andare: crescita, equità, bene comune.