giovedì 20 settembre 2012

Le convention americane (e lezioni per le primarie)

di Danilo Raponi (articolo apparso in precedenza su iMille)


Con le convention di fine estate i democratici e repubblicani americani tradizionalmente scelgono i loro candidati per le cariche di presidente e vice presidente degli Stati Uniti. Quest’anno si sono tenute dal 2 al 6 settembre 2012 a Tampa, in Florida, e a Charlotte, North Carolina. I repubblicani hanno sancito la nomination di Mitt Romney a presidente e Paul Ryan a vicepresidente, mentre i democratici hanno confermato il ticket Obama-Biden. Prima di entrare nel merito dell’articolo, con il quale mi propongo di analizzare i meriti e demeriti democratici della convention come strumento politico, è opportuno precisare che fino al 1960 erano molto diverse da quello che sono oggi: nelle convention i delegati discutevano, dibattevano, si scontravano, cercavano posizioni comuni, esaminavano i candidati e, soltanto alla fine, esprimevano il proprio voto che, talvolta, non mancava di riserbare sorprese.

In alcune occasioni non si riuscì neppure ad esprimere una chiara maggioranza, se non dopo ripetute votazioni, come quella che nel 1932 vide Franklin Delano Roosevelt nominato soltanto dopo la quarta sessione di voto, che si tenne nelle tarde ore della notte. Il suo oppositore di allora, Wendell Willkie, andò poi a vincere la nomination repubblicana nel 1940 al sesto ballottaggio. Nel 1956 Adlai Stevenson, riscontrando contrasti pressoché insanabili tra due anime del partito democratico, chiese ai delegati della convention di scegliere il candidato a vice presidente tra John F. Kennedy e Estes Kefauver, a favore di quest’ultimo. L’ultima convention che svolse davvero il suo ruolo di organo con poteri decisionali fu quella del partito democratico nel 1968, che elesse Hubert Humphrey a candidato alla presidenza, nonostante non avesse neppure partecipato alle primarie. Quest’ultime erano state vinte da Eugene McCharty, che vi partecipò con un piattaforma fortemente contraria alla guerra in Vietnam, ma nulla poté contro il voto dei delegati.

Questo episodio spinse il partito democratico a convocare una commissione speciale, la quale stabilì che da allora in poi i candidati alla presidenza sarebbero stati scelti tramite le primarie, con i delegati che avrebbero votato secondo le indicazioni espresse dai cittadini. In teoria, ancora oggi, è possibile che le primarie non riescano ad individuare un candidato con una solida maggioranza, e in questo caso la convention servirebbe a raggiungere un compromesso su un candidato, anche tra chi non ha partecipato alle primarie. Ma è molto poco probabile che ciò accada. Ecco dunque che le convention moderne si sono trasformate, più che altro, in un grande esercizio di public relations, sono strumenti di propaganda politica piuttosto che di selezione di un candidato espressione del partito.

Non bisognerebbe però lasciarsi andare alla tentazione di compiangere la formula originaria della convention, dove si annidavano interessi speciali, spesso corporativi e poco trasparenti, che portavano a scelte talvolta dettate da preferenze più particolari che generali. È però pur vero che, oltre tutti i loro difetti, le vecchie convention esaltavano l’arte del compromesso, fondamentale per il buon governo. In questo modo, le ali estreme del partito perdevano molta della loro importanza e i “grandi saggi” di ogni partito appoggiavano i candidati che con maggiore probabilità avrebbero potuto conquistare il centro politico, essenziale per il successo nelle elezioni generali.

Adesso, invece, sembra che “centro” sia un’espressione volgare e che il compromesso sia da considerarsi come manifestazione di debolezza e dunque da evitarsi in qualsiasi modo, con il risultato che le convention non fanno che esaltare le opinioni dei più intransigenti. Quest’anno è stato particolarmente evidente nella convention repubblicana, dove Chris Christie e Marco Rubio, due delle menti più fini del partito repubblicano, hanno a malapena accennato a Romney e Ryan, preferendo invece parlare più di loro stessi e di astratte idee conservatrici, dando dunque l’impressione di pensare alle loro carriere piuttosto che a quella di Romney: difatti, l’insuccesso di quest’ultimo alle elezioni di quest’anno renderebbe una loro candidatura alla nomination repubblicana del 2016 molto probabile, altrimenti se ne riparlerebbe nel 2020.

Nel complesso, tuttavia, le convention moderne sono da preferirsi su quelle antiche. L’introduzione delle primarie “vincolanti” ne ha determinato la loro natura molto democratica e aperta, e il fatto che ormai non servano più a nulla se non a pubblicizzare il candidato già scelto è forse un bene, in quanto interessi speciali e “baroni” di partito non possono più interferire nella scelta degli elettori. Spesso le nuove convention servono anche a chiarire il programma elettorale e la filosofia politica di ogni candidato, seppure la convention repubblicana di quest’anno sia stata deludente anche da questo punto di vista. Abbiamo capito tutti che i repubblicani amano le loro famiglie più di qualsiasi altra cosa e sono contrari a ogni proposta politica che si possa scontrare contro il concetto tradizionale di famiglia. Abbiamo anche appreso che i repubblicani pensano che “we are on our own”, che siamo da soli nella società e che dovremmo essere soltanto noi stessi ad aiutarci in momenti di difficoltà, non lo stato. Infine, abbiamo anche assistito alla rivendicazione dell’individualismo assoluto dell’I built it, in aperta polemica con Obama il quale aveva ragionevolmente affermato che anche l’imprenditore più di successo deve qualcosa alla società che ha permesso che la sua idea si affermasse e che ha fornito gli strumenti e l’ambiente favorevole alla sua creazione. Apparentemente, i repubblicani sembrano credere che Mark Zuckenberg abbia creato Facebook da solo, così come Bill Gates aveva fatto con Microsoft (entrambi gli interessati, tra l’altro, smentiscono che una cosa del genere sarebbe mai stata possibile).

Le convention moderne svolgono anche l’importantissimo ruolo di coinvolgere la base del partito, con i migliaia di giovanissimi volontari che rendono l’evento possibile, ma anche e soprattutto con i discorsi che si susseguono nei tre giorni dell’evento. Il keynote speaker è spesso l’astro nascente del partito, tanto che nella convention democratica del 2004, quella che sancì la nomination di John Kerry, a dare il keynote speech fu chiamato un signore allora semi-sconosciuto, di nome Barack Obama, che non impiegò molto, da quel momento che lo consacrò all’attenzione del mondo, a divenire il primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti d’America. Quest’anno il keynote speaker per la convention repubblicana è stato Chris Christie, mentre al quarantaduenne senatore Marco Rubio è stato affidato il discorso di introduzione alla nomination di Mitt Romney. Entrambi Christie e Rubio sono da tenere d’occhio, ne sentiremo parlare ancora indipendentemente dall’esito delle elezioni del prossimo novembre.

Per i democratici è stato addirittura il trentasettenne Julian Castro, sindaco di San Antonio, a farsi carico del keynote speech. Con una brillante carriera politica avviata già da tempo, il giovane Castro è una delle promesse del campo democratico. Alla convention democratica ha parlato anche la trentunenne Tulsi Habbard, un’hawaiana e veterana di guerra che, se eletta al Congresso, sarà la prima donna veterana di guerra ad occupare un seggio del Congresso americano e la prima Hindu. È un’altra rising star dei democratici. A differenza della convention repubblicana, in quella democratica si è anche parlato di contenuti, di idee, di programmi. Con un discorso esemplare e seguitissimo, Bill Clinton ha spiegato all’America che questa, più che mai, è un’elezione in cui si andrà a scegliere non già tra due uomini, bensì tra due visioni diverse del ruolo del governo e dello stato nella società. I repubblicani, polarizzati dai tea party, sembrano avere come obiettivo unico la riduzione delle tasse per i più ricchi e i tagli ad alcune voci della spesa pubblica necessarie a creare opportunità e garantire assistenza sociale e sanitaria per le classi povere. I democratici, invece, sostengono convinti che, nelle parole di Clinton, “we are all in this together is a better slogan than you’re on your own” (siamo tutti assieme in questo è uno slogan migliore di sei da solo), che il ruolo dello stato negli anni a venire sarà fondamentale, come garante di equità, di opportunità per tutti, di giustizia sociale, di regolamentazione ferrea ma non oppressiva del settore finanziario, di guida degli Stati Uniti e dell’occidente in un mondo instabile e pericoloso.

Lunga vita alle convention allora! Nonostante i loro difetti e la loro tendenza a divenire strumenti di “marketing”, le convention americane moderne rimangono pur sempre uno straordinario strumento di democrazia. Di più, sono uno dei tasselli fondamentali della più grande democrazia del mondo: presentano i candidati al paese, chiariscono le idee dei partiti, e offrono una piattaforma di lancio per i futuri leader. Nulla di tutto ciò esiste, purtroppo, in Italia, dove i partiti cercano di evitare in tutti i modi di indire congressi e, pur quando indetti, li riducono a un osanna collettivo e artificiale al Grande Burattinaio di turno, per riscoprire una felice espressione di Ernesto Galli della Loggia. Possibilità di scelta e di intervento da parte dei cittadini non sono previste. Degli esponenti più giovani del partito, poi, nessuna traccia. Sembra che uno dei requisiti per parlare a un congresso di partito in Italia sia l’essere già stati in Parlamento per almeno 20 anni. C’è da sperare, per il bene della politica italiana, che il Partito Democratico voglia invertire questa tendenza con l’indizione di primarie serie e veramente competitive e, perché no, con la consacrazione del candidato prescelto dai cittadini in una convention in vero stile americano.

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