giovedì 13 settembre 2012

Riforma elettorale. Preferenze o voto singolo trasferibile?


Negli ultimi mesi si parla sempre più della riforma elettorale. Era facile aspettarselo, con l'avvicinarsi delle elezioni, ed era altrettanto facile aspettarsi anche la superficialità con cui se ne sta parlando. Noi Giovani proviamo a ragionarci più in profondità con questo articolo di Danilo Raponi (apparso in precedenza su iMille).

L’inerzia del Parlamento italiano ha ormai raggiunto livelli di cronicità tali da richiedere l’intervento del Presidente della Repubblica su un tema di ormai impellente necessità di risoluzione: la riforma elettorale per le elezioni della Camera e del Senato. Con un messaggio inviato congiuntamente ai due rami del Parlamento il 9 luglio 2012, il Capo dello Stato ha ricordato che è “opportuna” e “non più rinviabile” la presentazione in Parlamento di una o più proposte di nuova legge elettorale “anche rimettendo a quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva e rimanessero quindi aperti a un confronto conclusivo”. L’impazienza di Giorgio Napolitano è comprensibile e condivisibile, perché è ormai dallo scorso gennaio che si parla di riforma della legge elettorale e che i partiti sembrano discutere su varie proposte le quali, però, non vedono mai la luce al di fuori dei corridoi di Montecitorio.
Appare ormai sempre più chiaro che questa inerzia è dettata da istinto di conservazione, o meglio, dal bieco timore dell’80% degli attuali parlamentari di non essere riconfermati nel prossimo Parlamento qualora venisse approvata una legge elettorale che garantisca davvero una selezione basata sul merito e una chiara e trasparente scelta dei propri rappresentanti da parte dei cittadini. Come già sottolineato da Cristiana Alicata nell’articolo pubblicato su iMille il 13 luglio 2012, la reintroduzione delle preferenze è da osteggiarsi perché comporterebbe un intollerabile ritorno al passato e la cancellazione di tante faticose, e ancora parziali, conquiste della democrazia italiana, in primis l’introduzione delle primarie per la scelta dei candidati (ancora adesso diffuse soltanto nel Partito Democratico). Ma c’è di peggio.
Sebbene un sistema elettorale proporzionale con preferenze possa sembrare l’apogeo della scelta elettorale democratica, non è affatto così. È invece il sistema preferito del populismo, della demagogia, della plutocrazia, cosa ben diversa dalla democrazia. È il sistema che si prefigge di premiare la popolarità e la celebrità del candidato, non i suoi meriti e le sue conoscenze. È per chi si vorrà vantare di aver ricevuto più delle 800.000 preferenze degli Andreotti e De Mita dei loro “tempi d’oro”. Volendo pensar male, la preferenza favorisce inoltre il voto di scambio: tra una rosa di candidati, l’elettore può scegliere quello che gli promette di restituirgli il favore fatto. Non facciamo finta di non sapere che scambi di vario genere, più o meno leciti ma in ogni caso aberranti per lo spirito pubblico che dovrebbe governare ogni democrazia, erano all’ordine del giorno della Prima Repubblica. Vogliamo forse tornare ai bei tempi andati? Non credo.
Anche tralasciando l’aspetto di “incentivo all’illegalità” che, a mio avviso, le preferenze rappresentano, torno a ripetere che quest’ultime sono dannose per lo sviluppo e la maturazione della coscienza democratica dei cittadini. Facilitando difatti una scelta istintiva di candidati celebri, i famigerati V.I.P., si corre il rischio di ritrovarsi con il Parlamento pieno di celebrità televisive, calciatori e i soliti datati politici che pur avendo avuto l’opportunità di cambiare l’Italia per il meglio non l’hanno fatto, preferendo invece occupare il tempo a loro disposizione per consolidare la presa elettorale sul loro collegio o circoscrizione elettorale.
In questo modo si riduce drasticamente il ricambio degli eletti e si continua a tenere fuori dal Parlamento i grandi esclusi della politica italiana: i giovani, le donne e le minoranze. Chi vuoi che vada a votare per una giovane trentenne-quarantenne, che magari di nome fa Maria Abu Qulrah, quando invece può semplicemente votare per Pierluigi Bersani o Silvio Berlusconi? Già solo il dover scrivere Abu Qulrah sulla scheda elettorale provocherebbe errori di spelling a dismisura, che darebbe adito a contestazioni, annullamenti di schede, discussioni infinite tra scrutatori inflessibili e scrutatori tolleranti, rappresentanti di lista e presidenti di seggio. Pensare poi alle farsesche risse che ne deriverebbero farebbe desistere una ipotetica Abu Qulrah dal candidarsi. (Una precisazione: non si vuol in alcun modo sostenere che una qualsiasi Abu Qulrah, che tra l’altro è un nome di fantasia, sia più meritevole di essere votata rispetto a Bersani o Berlusconi soltanto perché appartenente ad una minoranza, magari di pelle scura e di religione non cristiana; bensì ipotizzo un’immigrata nata in Italia, quindi italiana, che si è distinta per eccellenza negli studi e nella vita professionale, che abbia un alto senso di dovere civico e che voglia partecipare alla vita politica del suo paese, certamente anche per la protezione dei diritti civili delle minoranze, ma soprattutto per il bene comune).
Questo discorso è valido però anche per un giovane che di nome fa semplicemente Mario Rossi, e che abbia le competenze, l’impegno e passione civile di cui sopra: tra una lunga lista di candidati tra cui scegliere non verrebbe eletto, a favore invece della Belen di turno. Anche un Pietro Ichino si troverebbe a rischiare di restar fuori dal Parlamento, a dispetto di un Calderoli che invece non correrebbe alcun rischio. Già sento levarsi le accuse di elitismo, sfiducia negli elettori, antidemocraticità, ecc. Niente di tutto questo. Non sto insinuando che gli elettori italiani siano tutti “asini” che votano irrazionalmente o, peggio, che siano tutti corrotti che votano per tornaconto personale. Ce ne sono anche di questi, ma sono certo che costituiscono una minoranza. È però fisiologico che l’elettore medio, lasciato libero di scegliere chiunque tra una lunghissima lista di candidati, si soffermi sul nome più familiare, sul personaggio più visto in televisione, sulla faccia più ripresa sui quotidiani. Non si ferma a riflettere su quale sia effettivamente il candidato migliore; anche se animato da buone intenzioni, vota istintivamente. Se guidato da cattive intenzioni, poi, la preferenza gli permette di votare chi gli ha promesso favori, a discapito di qualsiasi considerazione di politica come amministrazione del bene pubblico.
Quale soluzione, allora? I collegi uninominali, con primarie obbligatorie, costituirebbero un’egregia soluzione. Constatando però che ci sono forti resistenze in questo senso da una certa parte politica, andiamo a proporre un’alternativa ancora non discussa in Parlamento: il voto singolo trasferibile (VST). La prima caratteristica di questo sistema elettorale, usato per l’elezione del Senato australiano e della Camera irlandese, tra gli altri, è che non è né maggioritario né proporzionale. Integra invece al suo interno caratteristiche tipiche di entrambi i sistemi: garantisce una sostanziale equità degli esiti elettorali, come richiesto dalle formule proporzionali; e mantiene un forte legame individuale tra i candidati e le proprie circoscrizioni elettorali, tipico dei sistemi maggioritari. In questo modo, il sistema del voto singolo trasferibile riesce a perseguire lo scopo di combinare un’equa rappresentanza di tutte le diverse componenti della società, evitando contemporaneamente di aumentare il potere dei partiti e delle fazioni.
È in realtà scorretto parlare di “voto singolo trasferibile” come se fosse un sistema elettorale immediatamente tipizzabile in una categoria. Difatti, sistemi che si basano sul voto singolo trasferibile possono differire tra di loro per il modo in cui trasformano i voti in seggi, ma anche per caratteristiche quali l’ampiezza delle circoscrizioni e la struttura delle schede elettorali. Tuttavia, esistono molti elementi simili che ci permettono di trattare, per comodità e chiarezza, il voto singolo trasferibile come se fosse un sistema elettorale unico, sempre identico. Innanzitutto, il VST prevede sempre l’esistenza di collegi plurinominali, la cui ampiezza può variare a seconda della popolazione ivi rappresentata. Ogni elettore ha a disposizione un solo voto, da utilizzare ordinando i candidati sulla scheda elettorale secondo le proprie preferenze, dal primo all’ultimo. Si può prevedere che il voto sia valido soltanto quando l’elettore esprima il proprio ordine di preferenza per tutti i candidati presenti sulla lista (sistema da preferirsi), oppure anche quando l’elettore esprima solo la prima preferenza. Ad esempio, se in un collegio ci sono 10 candidati, l’elettore vota non più con una crocetta affianco al nome del prescelto, bensì numerando tutti i candidati in ordine di preferenza, da 1 a 10.
Sono immediatamente eletti tutti i candidati che superano una quota minima di voti, detta Droop Quota, in prima preferenza. La droop quota è ottenuta dividendo il numero di voti validi per il numero di seggi della circoscrizione, aumentato di un’unità; al quoziente di questo rapporto si aggiunge poi un’altra unità, e si arrotonda il risultato per difetto.[1]

Questa quota, naturalmente, rappresenta il quoziente minimo di voti da non poter essere ottenuto da un numero di candidati superiore al numero di seggi disponibili. Se nessun candidato raggiunge la quota in prima battuta, il candidato con meno voti in prima preferenza viene escluso dalla competizione, e le sue schede vengono trasferite (ecco dunque il significato di voto singolo trasferibile) agli altri candidati, in base alle seconde preferenze espresse nelle schede. In questo modo, i voti degli elettori del candidato escluso serviranno ad eleggere altri candidati espressi come seconda scelta. Questo procedimento di eliminazione e trasferimento procede fin quando uno o più candidati raggiungano o superino la soglia (droop quota) per l’elezione, fino al raggiungimento del totale dei seggi a disposizione.[2]
Come qualsiasi sistema elettorale, il VST non è perfetto e deve essere accompagnato da una legge che ne precisi il funzionamento, soprattutto in merito al trasferimento delle preferenze successive alla prima, momento in cui entra in gioco un forte elemento probabilistico che va mitigato attraverso la considerazione di frazioni di tutti i voti successivi al primo, come succede nell’elezione del Senato australiano. Bisogna inoltre essere molto attenti alla definizione dei collegi e del numero di seggi a disposizione in ciascun collegio. Altrimenti, lasciato a se stesso, il VST è un sistema che in alcuni casi estremizza il formarsi di solide maggioranze, in favore della governabilità ma a scapito di un’equa rappresentanza. Questa fu una delle principali obiezioni sollevate da chi si oppose al referendum del 5 maggio 2011 che chiese agli elettori del Regno Unito qualora preferissero adottare una variante del VST, l’alternative vote, al posto dell’attuale sistema first-past-the-post, che è fortemente maggioritario (in sintesi, con il first-past-the-post si formano collegi uninominali, a turno unico, nei quali viene eletto il candidato che ottiene più voti, senza alcuna soglia minima).[3]
Un VST ben strutturato, tuttavia, consente di combinare la rappresentanza proporzionale con la scelta dei candidati da parte dell’elettore, piuttosto che dei partiti, soprattutto se le elezioni sono precedute da primarie obbligatorie. Che differenza c’è, ci si potrebbe chiedere, con un sistema proporzionale a lista aperta (vale a dire, con preferenze)? Ebbene, c’è una differenza sostanziale. Innanzitutto, con le primarie i cittadini maggiormente impegnati nella vita civica del loro paese ed interessati ad una corretta ed efficiente gestione della cosa pubblica (in altre parole, la maggioranza dei cittadini che votano alle primarie), andranno a scegliere i candidati migliori su base di meriti e competenze, piuttosto che di altri più discutibili fattori (sebbene ci saranno sempre eccezioni). Inoltre, al momento delle elezioni vere e proprie, mentre i sistemi proporzionali con preferenze spingono gli elettori a scegliere un candidato tra la lunga lista del partito che si intende votare (lista che, tra l’altro, è formata dal partito, senza primarie), invece con il sistema del voto singolo trasferibile, gli elettori tendono a formare il loro ordine di preferenza dei candidati non tanto a seconda del partito che rappresentano, bensì tendono a scegliere i candidati stessi a prescindere dai partiti.[4]
Per concludere, non esiste un sistema elettorale che combini perfettamente l’esigenza di governabilità con quella della rappresentanza. Tuttavia, esistono sistemi elettorali cattivi, fatti male e con malizia, per la preservazione dello status quo, come ad esempio il cosiddetto “Porcellum”. Un ritorno al proporzionale con liste aperte sarebbe ugualmente biasimevole, i soliti noti tornerebbero in Parlamento, con un ricambio minimo (con l’eccezione, forse, di qualche “grillino”).
Gran parte dei mali della politica italiana degli ultimi 20 anni derivano dalla mediocrità, incompetenza e disattenzione per la cosa pubblica di chi ci rappresenta in Parlamento. C’è bisogno di un cambio di rotta. Oltre alla governabilità e rappresentanza, dunque, il nuovo sistema elettorale per la Camera e il Senato dovrà garantire la possibilità di selezionare una nuova classe dirigente, che si distingua nettamente da quella attuale per capacità, cultura, e dedizione alla buona e diligente amministrazione del bene pubblico.
Che non si torni al proporzionale con preferenze, dunque. Ma che non si resti con il “Porcellum”, neppure. Non ho però grandi speranze in  merito all’adozione del singolo voto trasferibile: il fatto che in Italia se ne sia sempre parlato in ambiti accademici ma mai in Parlamento è sintomatico dell’opposizione dei nostri politici anche solo a considerarne la scelta. Diranno probabilmente che si tratta di un sistema troppo difficile per gli elettori e che genererebbe troppi voti nulli. Temo che siano loro, invece, a non riuscire a comprenderne il funzionamento o perlomeno a non riuscire a farlo rientrare nei loro turpi calcoli di utilità per il partito. A questo punto, allora, non mi resta che lanciare una provocazione: perché non adottare il sistema di voto Random Sample inventato da David Chaum? Si andrebbe a selezionare casualmente, a sorteggio, un piccolo gruppo di cittadini, che saranno gli unici chiamati a votare in una determinata tornata elettorale. Questo gruppo di cittadini/elettori dovrà essere grande abbastanza da essere rappresentativo, e piccolo abbastanza da garantire che ogni voto conti molto, responsabilizzando dunque gli elettori e spingendoli a scegliere i candidati ritenuti davvero più adatti a rappresentarli.[5] Ripeto, è una provocazione, ma a confronto con il “Porcellum” senza primarie, è una provocazione da prendersi sul serio.


[1] S. Finamore, ‘Tra rappresentanza e governabilità: Il Voto Singolo Trasferibile nell’esperienza di Irlanda e Malta’, p. 5, in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0077_finamore.pdf, ultimo accesso 15 luglio 2012.
[2] Ibid., p. 6.
[4] R.S. Katz, ‘The Single Transferable Vote and Proportional Representation”, in A. Lijphart e B. Grofman (ed.),Choosing an Electoral System: issues and alternatives. Praeger, 1984, p. 145.
[5] D. Chaum, ‘Random Sample election. Far lower cost, better quality and more democratic’, in http://rs-elections.com/Random-Sample%20Elections.pdf, ultimo accesso 15 luglio 2012.

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