domenica 4 novembre 2012

Choosy or not choosy?


di Danilo Raponi

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La Fornero invita i giovani a non essere choosy. Infuria il dibattito. Importanti economisti americani consigliano invece di essere choosy. Noi proviamo a ragionarci su.
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Il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Elsa Fornero, a margine di un convegno di Assolombarda del 22 ottobre 2012, invita i giovani a non essere troppo “schizzinosi” nella ricerca del primo posto di lavoro: “Non bisogna mai essere toppo choosy – dice – meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale”. Nel peggiore stile italico, si scatena un putiferio tra veementi detrattori e impetuosi sostenitori delle parole della Fornero. Quest’articolo, invece, vuole costituire una serena riflessione sull’opportunità o meno di “essere choosy”, prendendo spunto da recenti studi di economisti americani sull’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Un’avvertenza importante in un paese in cui tutti, prima o poi, si spacciano per economisti: chi scrive non è un economista, ma quest’articolo passerà in rassegna idee diverse e concorrenti di alcuni economisti americani che ci saranno di ausilio per giungere a conclusioni di carattere politico.
            
           Prima di addentrarci nel vivo dell’articolo, c’è però bisogno di un chiarimento: cosa significa choosy? Choosy è una parola inglese molto informale e poco felice, che non andrebbe tanto tradotta con “schizzinoso”, come fatto dalla maggior parte dei giornalisti italiani, quanto piuttosto con “esigente”. Orbene, la dialettica choosy or not choosy applicata al mercato del lavoro è solo un vaniloquio da bar, oppure c’è qualcosa di più? C’è molto di più, come andremo a scoprire. Al riguardo ci sono, difatti, due campi contrapposti di studi empirici e teorie economiche.

Raj Chetty, segnalato dall’Economist nel 2008 come uno degli otto economisti più promettenti al mondo, è una persona molto choosy. Nel 2008, a soli 29 anni, si dimise da una cattedra di economia all’Università della California, Berkeley, per poi invece accettare un posizione da professore ordinario a Harvard. Più choosy di così non si può. In uno straordinario esempio di coerenza intellettuale, mise pienamente in pratica la sua teoria sul mercato del lavoro. Chetty è difatti un convinto sostenitore dell’opportunità di espandere i sussidi alla disoccupazione, perché così facendo si dà più tempo a chi cerca lavoro di trovarne uno consono ai suoi obiettivi, interessi, e competenze. Com’è arrivato a queste conclusioni?

Ha ritenuto superfluo costruire complicati modelli econometrici per i quali avrebbe dovuto specificare quale sia il valore di un euro per una persona senza lavoro a confronto di una pienamente occupata. Avrebbe inoltre dovuto quantificare, con grandi difficoltà, l’onere, il fardello richiesto dall’attività di ricerca di un lavoro.  Niente di tutto ciò. Chetty ha semplicemente osservato quanto tempo si impiega a trovare lavoro. Non sorprende che chi gode di sussidi di disoccupazione più generosi adoperi più tempo. Tale comportamento è solitamente attribuito al fenomeno noto come “azzardo morale”: chi è assicurato contro un rischio, in questo caso la disoccupazione, se ne preoccupa di meno di chi non è assicurato. Ma Chetty dimostra che in realtà ciò spiega soltanto una parte di questo ritardo temporale. Il resto è spiegato invece da ciò che lui definisce “liquidity effect”: i disoccupati solitamente hanno a disposizione poca liquidità, contanti o altri beni facilmente fruibili, e altrettanto poche chance di ottenere un prestito in banca. Dunque si affrettano il più possibile a trovare lavoro e spesso scelgono il primo che viene loro offerto, senza un minimo di deliberazione sull’opportunità della scelta e le sue possibile conseguenze. Se avessero potuto, invece, accedere più facilmente a forme di credito, oppure se avessero disposto di maggior liquidità, avrebbero potuto riflettere maggiormente sulla loro scelta professionale.

Questa maggiore deliberazione, dunque questa presa di tempo, è per Chetty un fattore molto positivo. Permette a chiunque cerchi lavoro di pensare in maggior misura a cosa vorrebbe fare, cosa si sente portato a fare bene, come potrebbe meglio contribuire ad una mansione piuttosto che un’altra. Le conseguenze di tale comportamento, cioè dell’essere choosy, secondo Chetty sono soltanto positive. Chi sceglie un lavoro consono alle proprie esigenze e gusti sarà più produttivo e più industrioso, a vantaggio dunque di tutta la comunità, che verrebbe ampiamente ripagata dei costi sostenuti per i sussidi alla disoccupazione. Chetty calcola che, negli Stati Uniti, anche solo con un aumento di 1 dollaro a settimana per sussidio di disoccupazione si produrrebbero effetti positivi per l’economia come se il PIL aumentasse di 290 milioni di dollari. Gli studi di Chetty dimostrano, dunque, che i benefici dei sussidi alla disoccupazione sono di gran lunga maggiori dei costi derivanti dal disincentivo che offrono alla ricerca di un lavoro in tempi brevi. Inoltre, i benefici dei sussidi sono perfino maggiori in questa face di recessione, a causa delle difficoltà di accesso al mercato del lavoro e delle difficoltà di accesso al credito che precludono ancora di più i disoccupati dall’ottenere liquidità. In base a tutto ciò, Chetty è dunque un convinto sostenitore di politiche del lavoro che introducano e fortifichino i sussidi alla disoccupazione, o, per ricollegarci al dibattito Fornero, è un proponente della “choosy economics”.

Naturalmente, non tutto il mondo accademico, e ancora meno quello politico, è d’accordo con le conclusioni di Raj Chetty. Gli stessi studi di Chetty, in realtà, erano stati inizialmente formulati come risposta ad una serie di articoli degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso in cui alcuni economisti, tra tutti Lawrence Katz (Harvard) e Bruce Meyer (Chicago), sostenevano che i sussidi alla disoccupazione producono effetti negativi in quanto diminuiscono la necessità di trovare lavoro rapidamente e accrescono l’improduttività dei disoccupati. In una recente audizione alla Camera dei Rappresentanti, però, lo stesso Katz ha ammesso di aver imperniato i suoi studi su assunti parzialmente errati e di aver scoperto col tempo che, invece, chi negli anni ’80 beneficiava maggiormente dei sussidi di disoccupazione erano alcune aziende che attuavano la nefasta pratica dei licenziamenti temporanei. Queste aziende, difatti, licenziavano numeri cospicui di lavoratori per un certo periodo, ben sapendo che i neo-disoccupati avrebbero usufruito di sussidi alla disoccupazione, per poi riassumerli appena prima della scadenza di tali sussidi, sfruttando così alcuni mesi di ridotti costi del lavoro. Siccome l’inumanità e l’immoralità di tali pratiche le ha rese oggigiorno molto meno comuni, questo aspetto negativo dei sussidi è venuto a mancare, in quanto i lavoratori licenziati non possono più sperare di essere assunti di nuovo dalla stessa azienda, e dunque cercano altri lavori più operosamente. Altri economisti, come David Card (Berkeley), che ha lavorato con Chetty, e Till von Wachter (California, Los Angeles), che ha eretto la sua analisi su eccellenti statistiche tedesche, riconoscono che i benefici dell’essere choosy sono più degli svantaggi che questo comporta.

Insomma, il mondo accademico americano sembra quasi univoco nel celebrare le lodi dei sussidi alla disoccupazione. Una voce fuori dal coro è quella di Robert Barro, un altro professore di economia a Harvard, il quale sostiene che l’estensione dei sussidi è quasi sicuramente il principale colpevole dell’alto livello di disoccupazione di cui gli Stati Uniti soffrono. Barro ha stimato, ma molto approssimativamente, che la disoccupazione sarebbe di circa due punti percentuali più bassa di quella che è adesso se non ci fosse più alcun sussidio di disoccupazione. Tranne Barro, tuttavia, il quale inoltre ha ammesso di non aver condotto studi sistematici e accurati come quelli di Chetty, la no-choosy economics sembra essere piuttosto uno dei cavalli di battaglia di una certa parte politica. Si tratta del Partito Repubblicano, che negli ultimi anni è stato fortemente condizionato dalle idee del movimento Tea Party, che molto spesso si colloca alla destra della politica conservatrice statunitense. Chi scrive non nasconde una certa perplessità per la riproposizione di politiche economiche fondate su minore imposizione fiscale, minori spese pubbliche (con l’eccezione per quelle militari) e minore regolamentazione del settore finanziario. Sono le politiche che hanno governato il mondo occidentale negli ultimi 20 anni, e hanno miseramente fallito. Si stenta a capire come, oggi, possano produrre frutti migliori di quelli maturati nella crisi del 2008.

A ciò è collegata una passione quasi viscerale dei repubblicani americani per la cancellazione di molti degli istituti migliori del welfare. Non solo l’abrogazione immediata della riforma sanitaria voluta da Obama, ma anche una forte diminuzione delle borse di studio federali per l’accesso alla formazione universitaria e l’eliminazione di certi benefici dei programmi sanitari Medicaid e Medicare, oltre alla riduzione del numero di insegnanti: sono questi alcuni dei punti del programma Romney/Ryan che raccolgono maggior consensi nella base repubblicana. I sussidi di disoccupazione, naturalmente, fanno parte del calderone del welfare tanto odiato dai repubblicani, e non c’è dubbio che rappresentanti e senatori di quella parte politica faranno di tutto per dimostrare i gravi svantaggi dei sussidi, ignorando a proposito gli studi di Chetty e dei suoi colleghi. Del resto, per i repubblicani, quasi tutti i professori universitari sono degli snob liberal, quindi perché starli a sentire? Viene voglia di dare ragione Paul Krugman, quando sostiene che i repubblicani di oggi soffrono di un grave “difetto di realtà”.

La conclusione di quest’articolo esulerà da considerazioni puramente economiche nell’affrontare il problema dello choosy or not choosy. Stiamo parlando pur sempre di esseri umani, per di più in gravi situazioni di indigenza e nello stato denigrante della disoccupazione. La scienza economica può fornirci utilissime chiavi di lettura di alcuni problemi sociali, ma non può spiegare tutto. E’ convinzione dell’autore che l’incitazione del ministro Fornero è sbagliata proprio perché prende in considerazione soltanto l’aspetto economico del lavoro. Ma il lavoro non è esclusivamente il mezzo di sostentamento dell’uomo. Lavoro è anche il modo in cui l’uomo si afferma in società, ne diviene parte, è ciò che conferisce dignità a uomini e donne che hanno scelto di dare il loro contributo al contratto sociale. Scelto, per l’appunto. Ogni persona è diversa, ha le sue aspirazioni, i suoi progetti e i suoi sogni. Ma al contempo ogni persona è uguale, perché tutti hanno aspirazioni, progetti e sogni. Compito di chi governa è dare a tutti l’opportunità di perseguirli.

Esortare a non essere choosy non è buona politica, non aiuta a rendere il mercato del lavoro italiano più flessibile e aperto ai giovani. E’ invece un rigurgito della peggiore politica italiana, quella degli ultimi 20 anni. Sappiamo che dal ministro Fornero possiamo aspettarci molto più che uno slogan avventato e irriflessivo. Una società veramente giusta dà a tutti i suoi membri la possibilità di esprimere al meglio i propri talenti. A questo fine, anche qualora fosse provato che i sussidi di disoccupazione siano anti-economici, che distruggano ricchezza invece di crearne, andrebbero in ogni caso promossi. Darebbero comunque ai disoccupati la possibilità di scegliere con cura e attenzione il proprio lavoro. Darebbero loro ciò che è più prezioso: tempo per pensare e riflettere su come si vuole contribuire al bene comune tramite il lavoro. E’ ciò che conta. Non tutto è economia, bellezza.


Bibliografia:
Barro R., ‘The Folly of Subsidizing Unemployment’, The Wall Street Journal, 30 August 2010
Caliendo M., Steffen K. E Uhlendorff A., ‘Marginal Employment, Unemployment Duration and Job Match Quality’, IZA Discussion Paper Series no. 6499, April 2012
Card D., Chetty R., e Weber A., The Spike at Benefit Exhaustion: Leaving the Unemployment System or Starting a New Job?, The American Economic Review, Vol. 97, No. 2 (May, 2007), pp. 113-118
Chetty R., Moral Hazard vs. Liquidity and Optimal Unemployment Insurance, Journal of Political Economy, Vol. 116, No. 2 (April 2008), pp. 173-234
Kgrueger A.B., and Mueller A., Job Search and Unemployment Insurance: New Evidence from Time Use Data, IZA Discussion Paper Series no. 3667, August 2008

Articolo precedentemente pubblicato su www.imille.org (01.11.2012).